Dalle collezioni del museo: le opere divisioniste del ferrarese Crema

La fama di Giovanni Battista Crema, nato a Ferrara nel 1883 e morto a Roma nel 1964, è certamente inferiore alla qualità della sua pittura. Quattro opere giovanili presenti al Museo Revoltella dal 1906 ci permettono di cogliere pienamente la sua adesione al divisionismo e l’influenza che esercitò su di lui la frequentazione, a Roma, del gruppo di pittori che si riunivano attorno a Boccioni, Balla, Severini.

Giovanni Battista Crema apparteneva a una famiglia altoborghese di Ferrara. Vista la sua abilità nel disegno, i suoi genitori lo iscrissero dal 1897 al 1899 alle lezioni di pittura di Angelo Longanesi Cattani, docente alla scuola d’arte Dosso Dossi e ricercato ritrattista dell’alta società ferrarese. Convinti i genitori, che vedevano in lui un futuro avvocato, a iscriverlo all’Accademia di Belle Arti a Napoli, si stabilì nel 1900 nella città partenopea dove fu allievo di Domenico Morelli, del quale recepì soprattutto la lezione della pittura rinnovata in senso romantico-storico. Nella successiva adesione del Crema al Divisionismo, avvicinamento giustificato soprattutto dalla possibilità di usare nella propria pittura concetti scientifici di scomposizione ottica al fine di ottenere effetti più decorativi, sopravvisse la connotazione realistica alla base dell’insegnamento del Morelli.

Crema espose per la prima volta nell’estate del 1901, partecipando alla III Esposizione della Società Promotrice di Belle Arti di Livorno. A seguito della morte del Morelli (13 agosto 1901) lasciò Napoli e si trasferì a Bologna dove completò gli studi artistici con un biennio all’Accademia come allievo di Domenico Ferri. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1902, convinse la madre a trasferirsi con lui a Roma. Una volta stabilitosi nella capitale, si legò al gruppo dei giovani artisti d’avanguardia (Severini, Boccioni, Balla, Prini, Baccarini, Cambellotti) e iniziò una produzione di carattere sociale eseguendo ritratti di proletari a carboncino vicini alle realizzazioni di Balla e realizzò delle illustrazioni per “l’Avanti della Domenica”, condividendo una visione dell’arte come strumento sociale. La sua produzione in questo periodo risentì di un realismo quasi aneddotico e moralista, con un tentativo di avvicinamento a Balla, Severini e Boccioni pre-futuristi, a cui si aggiunse un divisionismo sentimentale e populista.

Nel 1905 raccolse ampi consensi dalla critica alla Mostra del Circolo Amatori e Cultori di Roma, con il trittico L’istoria dei ciechi dolorosa e due nudi, opere che già manifestavano un più intenso sapore divisionista e che già avevano iniziato a rivolgersi a rappresentazioni di tematica più borghese e caldeggianti aperture al simbolismo. Tendenza, quest’ultima, che si sviluppò negli anni successivi in una evocazione di tematiche lugubri ambientate in una Roma mitica e in una Ferrara dannunziana e che raggiunse un apice di macabro e sulfureo sentire nelle tavole illustrative del libro Leggende romane di Luigi Callari del 1913, con un palese avvicinamento al Secessionismo di Franz von Stuck.

Esemplare delle sue nuove tendenze fu un trittico del 1911, in cui due amanti giacciono accanto ad un’aquila morta mentre intorno volteggiano dei pipistrelli, il tutto immerso in un’atmosfera dannunziana. Nel 1908 espose alla Quadriennale di Torino, nel 1910 all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires e nel 1911 a quella di Barcellona. Nel secondo decennio del Novecento realizzò numerose pitture ambientate a Ferrara, in cui edifici, scorci ed esseri umani vennero completamente immersi in un clima gotico e dannunziano, per quanto spesso rievocassero intimamente la città natale.
Crema iniziò sempre più ad allontanarsi dal divisionismo alla ricerca di un ideale equilibrio rappresentativo e di un simbolismo più o meno esplicito, che si consacrò nel ciclo di opere realizzate durante il primo conflitto mondiale. Nominato ufficiale di fanteria, venne inviato nel 1915 a combattere nelle trincee attorno a Gorizia e sul San Marco-Vertoiba, periodo durante il quale realizzò numerosi schizzi e tavolette. Appartengono a questo periodo Udine – Palazzo Civico, di impronta simbolista per la luce che rifrange sull’asfalto e il fanale acceso sul porticato, La vampata e Luci di guerra Settore di Gorizia, in cui le esplosioni belliche si risolvono in deflagrazioni cromatiche, bagliori divisionisti che quasi azzerano la cifra realistica.

Negli anni Venti partecipò a diverse esposizioni, soprattutto a Ferrara, ma fu la Prima Biennale Romana del 1921 l’evento più significativo. De Pisis commentò in maniera piuttosto asciutta il redivivo spunto populista alla Balla in Cantiere di notte e il dannunziano e macabro trittico Parisina Malatesta. Ma non vanno dimenticati i toni con cui accompagnò sulla “Gazzetta Ferrarese” del 14 aprile 1922 l’esposizione del Crema a Ferrara nella Galleria d’Arte Moderna diretta da Donato Zaccarini. Se da un lato De Pisis smorzò gli encomi (“Quelle pitture del trittico L’istoria dei ciechi – v’è la tecnica puntinistica con accordo ardito di ultravioletti, rossi, giallolini, che aveva fatto fortuna in Francia! – quelle pitture del Crema, senza entusiasmarmi, mi piacevano per i loro caratteri di novità e di arditezza nei quali io mi riconoscevo”), dall’altro elogiò il Crema perché “adoratore del colore, anzi, un ricercatore quasi in senso scientifico degli effetti d’esso. Egli è convinto che una delle più grandi conquiste della pittura moderna stia appunto nella maggiore intensità e luminosità del colore, in confronto agli antichi, pure sommi. Fino a un certo punto non so dargli torto. In fatto di tecnica pittorica il Crema, capii, la sa lunga!”. Il debordare in una “certa preoccupazione letteraria, che non toccando la lirica o la potente ricreazione storica, resta così tra il scenografico e il melodrammatico, sfiora le sensualoidi compiacenze di Franz Stuck e le borghesi ricostruzioni dei vecchi pittori nostri”, non privò però De Pisis dal vedere in certe sue opere le “le pitture del Galli e anche del miglior Previati”.
Commistioni di Eros e Thanatos, di demoni e scheletri eccitati, di sensuali corpi, vennero via via sostituiti da un gusto più intimista, raffinato e composto, in cui la tecnica divisionista iniziò a cedere alla resa più realista. Esemplari del gusto rinnovato sono Nel parco, in cui ritrae in una angolazione in tralice una ragazza seduta sotto un albero, e lo straordinario Scorcio (1927), ritratto della figlia sdraiata voluttuosamente su un tappeto. Seguirono dei dipinti atti a privilegiare la vita quotidiana, come Madre con bambino, in toni spesso crepuscolari.
Negli anni Trenta Crema si riavvicinò nuovamente a soggetti proletari e diede inizio alla rappresentazione della campagna romana, come la splendida Staccionata del 1940, composizione dai toni rosacei-serotini con un taglio raffinato. Tra gli anni Trenta e Quaranta si dedicò soprattutto a tele di grandi dimensioni, talvolta dagli esiti discutibili, spesso ambiziosi e modestamente illustrativi. Richiamato in servizio nel 1940 dal Ministero della Marina per il secondo conflitto mondiale, venne imbarcato su unità operanti della flotta per ritrarre aspetti della vita militare. Il ciclo che ne seguì venne presentato alla Biennale di Venezia del 1942, non senza ricevere consensi. La descrizione di tubi, ingranaggi, artiglierie, luci fredde, portò Crema a ritrarre uomini seminudi e in divisa come esseri meccanici impegnati in ritualistiche gestualità, evitando la retorica del trionfalismo e realizzando un vero e proprio documentario di guerra.
A seguito della morte della moglie nel 1946, iniziò a dedicarsi soprattutto a soggetti sacri e il suo avvicinamento al sentire religioso lo portò nel 1950 a figurare tra gli organizzatori dell’Esposizione d’Arte Sacra di Roma. Nell’ultimo periodo della sua vita si dedicò alla storicizzazione della sua opera attraverso la pubblicazione della sua prima monografia del 1954 con una premessa di Gustavo Brigante Colonna, a cui fece seguito la musealizzazione della sua produzione, con donazioni a enti pubblici (nel 1956 donò una quindicina di opere alla Pinacoteca Civica di Ferrara), che continuò fino agli anni Sessanta. La sua attività espositiva si concluse con la mostra monografica del 1962 a Livorno. Morì a Roma il 15 dicembre 1964.

 

Giovanni Battista Crema al Museo Revoltella

Le opere al Revoltella sono tutte datate 1905 e appartengono a quel periodo romano in cui Crema, dopo essersi soffermato sulla descrizione di soggetti proletari e tematiche sociali, iniziò a dedicarsi a descrizioni di intimità dai toni più borghesi. Furono donate al museo nel 1906 dall’archeologo romano Romolo Artioli.

La straordinaria Donna al bagno forse precede cronologicamente le opere esposte, poiché presenta una pennellata più materica e corposa. Gli accordi di ori e di bianchi delle finestre rendono la penetrazione della luce nella sala da bagno di una lucentezza compatta ed elegante, che con grande sapienza il Crema fa scivolare sul seno della giovane fanciulla. La delicatezza della posa, la naturalezza della descrizione, il volto inclinato a rincorrere un rapimento ideale, relegano la composizione in una dimensione trasognata di elegante intimità. Anche gli oggetti che si riferiscono al quotidiano – il catino in rame pieno d’acqua e il telo da bagno bianco – raccontano di un abbandono alla grazia e alla pace del riposo tra le mura domestiche. La Donna al bagno appartiene a quel periodo in cui Crema raffigurò nudi generalmente come figure a sé stanti, mentre, soprattutto dal primo conflitto mondiale, li inserì in tematiche più complesse, mitologiche e letterarie, o come elemento decorativo in composizioni ispirate ad atmosfere borghesi.

 

Anche nelle Due signore si avverte la nuova inclinazione borghese dell’artista. La splendida resa delle mani che infilano il guanto e quella più austera dell’impugnare un ombrello, parlano di una ricchezza ostentata nei gesti e dei dettagli (il cappello violentemente rosso abbinato ad un cappotto vistosamente impellicciato, una spilla d’oro che chiude il colletto della camicia, un gioiello appena percepibile, i ricchi e preziosi dettagli dei ricami delle maniche del cappotto). L’imperare di colori scuri è alleggerito da una superficiale tecnica divisionista che aggiunge alle due figure una vibrazione e un effetto coloristico altrimenti irraggiungibili.
Tale tecnica è ben presente in Uomo con cappello, probabilmente un autoritratto, in cui le sferzate violette e di un arancione acceso (che riprende la campitura del tetto dell’edificio sullo sfondo, completamente immerso in una luce bianca e aurea) conferiscono quella vibrazione di superficie necessaria a movimentare le tonalità marroncine dell’opera. Non deve sfuggire la straordinaria resa del volto e l’assenza di neri per le ombre. Le pupille, rese da un lieve ma deciso viola, appaiono vibranti e mobili, vive.

Di diverso tema Alpi, uno scorcio desolato e cupo colto alla fioca luce rugginosa del tramonto in cui la presenza umana è totalmente esclusa, e con essa lo sarebbe anche la vita stessa, se non fosse per quegli abbagli di verde erboso e radici che quasi casualmente compaiono e che sembrano voler annunciare con il loro potente inserimento una presenza di vita. Dell’esperienza divisionista qui mantiene in lontananza un vago accenno alla luce, in uno scorcio a malapena percettibile, che è però lontana, incapace di illuminare e animare il paesaggio.

Susanna Gregorat

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