La mostra intitolata Trieste Settanta. Arte e sperimentazione si inserisce nel solco delle iniziative promosse negli anni dal museo dedicate all’arte della seconda metà del Novecento e valorizza alcune delle principali esperienze di ricerca svoltesi in quel decennio e legate alla ricerca e alla sperimentazione.
L’immaginazione al potere era lo slogan del Sessantotto che lanciò la stagione libertaria degli anni Settanta, a Trieste declinata anche nella convinzione che la libertà fosse terapeutica.
Un nuovo lessico impregnato di termini ricorrenti fino allo stereotipo come alternativo e collettivo si traduceva in volontà di aggregazione da parte di artisti e di operatori culturali indipendenti, riuniti in gruppi che con passione, intelligenza e cultura si facevano promotori di mostre, installazioni, performances di arte contemporanea, per portare in città un nuovo modo di pensare e agire.
In una Trieste marginale, immersa nella frenesia del commercio transfrontaliero di jeans, per nulla attenta alla rivoluzione del costume in corso, i precursori di Arte Viva, seguiti da la Cappella Underground, da Studio Tommaseo e da Gruppo 78, si facevano portatori di una visione artistica e sociale del tutto avanzata: arte e sperimentazione, appunto. I triestini, nel solco della tradizione, guardavano più all’Europa che all’Italia, all’Azionismo Viennese e alle istanze dell’arte femminista, alla sperimentazione grafica e al computer tra Graz e Lubiana, a presentare ricerche sofisticate con incisiva povertà di mezzi. Nel tempo alcuni si sono estinti, a seguito della scomparsa dei loro fondatori, altri si sono trasformati da galleria d’arte a centro culturale, altri si sono orientati esclusivamente verso la cinematografia, altri infine hanno mantenuto la loro iniziale configurazione. Tutti hanno collaborato alla realizzazione della mostra, che non è solo un omaggio al lavoro degli anni Settanta, ma un ringraziamento per quanto ancora oggi propongono sulla scena culturale della città.
L’esposizione raccoglie un significativo nucleo di opere del periodo delle collezioni museali al quale si sommano quelle di collezioni private e degli artisti protagonisti del periodo e tuttora operanti.
È una mostra incentrata sulla molteplicità a partire dall’assunto di fondo che anche a Trieste quelle che erano state le esperienze dirompenti legate agli anni Sessanta – che nella rivoluzione sessantottina trovano un elemento simbolico di riferimento – come il desiderio di fuoriuscire dalla tela, di aprirsi alla interdisciplinarità e strutturare nuove metodologie operative – e nell’attività della Galleria la Cavana e del gruppo Arte Viva concrete manifestazioni precorritrici di alto profilo – contribuirono a far fiorire esperienze nuove, diverse, poliedriche e tutte connotate da una totale assenza di gerarchie, oltre che segnate da una notevole complessità stilistica.
Se nella Trieste degli anni Settanta continuano a produrre gli artisti già ampiamenti affermarti (Mascherini, Carà, Devetta, Sormani, Rosignano, Predonzani, i Daneo solo per citarne alcuni) e le gallerie di punta e gli istituti di ricerca (Galleria Torbandena, Cartesius, La Lanterna, Rettori Tribbio, Istituto germanico di cultura, Associazione culturale italo-svizzera) organizzano un’ottima e vivace programmazione, peraltro documentata dalla ricca produzione conservata al Museo Revoltella, si fa strada una produzione alternativa, controcorrente, che, se per certi aspetti rappresenta una fase normalizzatrice rispetto le esperienze neoavanguardistiche di punta degli anni Sessanta, e altresì aggancia ulteriori ipotesi di ricerca in parallelo a quanto accadeva in tutta Italia.
Se ancora oggi, dopo tanti dibattiti, il fenomeno del ’68 non può essere ben definito ma solo parzialmente circoscritto, è anche innegabile che uno dei suoi segni connotanti è stata la rottura di regole e gerarchie: metodologie e correnti artistiche vengono destabilizzate da una critica serrata e onnipervasiva e l’artista si ritrova libero di raccogliere sollecitazioni estese e diversificate per nuove ricerche, per ritornare a riflettere sul già fatto e riproporlo con citazioni e rinnovamenti, per verificare possibili altre declinazioni di correnti artistiche già definite e ricerche spesso di matrice interdisciplinare.
Così, se il clima degli anni Sessanta era stato connotato dal cosiddetto fenomeno della morte dell’arte, con le conseguenti fuoriuscite spaziali o gli sconfinamenti in territori extrartistici, che peraltro proseguono ininterrotti, gli anni Settanta sono quelli in cui queste tendenze vengono normalizzate e affiancate da nuove tipologie legate al puro progetto, al comportamento piuttosto che al concetto. Vi è spazio a Trieste per anticipazioni di fenomeni di ritorno alla pittura o di esperienze radical in fatto di fotografia, design e architettura. Emergono sia episodi di impegno sociale che di attenzione al lato puramente formale e ai principi minimi del fare artistico. Vengono privilegiate esperienze di rigore geometrico e astratto, magari esploso nello spazio; emergono anche esperienze immateriali legate al videorecording che vanno ad aggiungersi alle azioni performative di alto profilo sviluppate soprattutto nel territorio musicale già nel decennio precedente. Si assiste, in definitiva, a una molteplicità di proposte.
Il percorso espositivo
La mostra è allestita nella Sala Scarpa del Museo Revoltella. Si apre – al pianterreno – con una sezione dedicata alla grafica e – all’ammezzato – con l’esposizione di un ricco materiale documentativo del periodo conservato nel museo. Inviti, locandine ed editoria di tutto il decennio – interessanti anche dal punto di vista prettamente grafico – che fanno comprendere il panorama, assai diversificato della scena artistica locale, l’attività delle gallerie, mostre personali e collettive, ma anche incontri, conferenze e spettacoli.
Il percorso espositivo, improntato ad una estrema libertà, per sollecitare una fruizione conoscitiva personale, è costituito sia dalle opere dei diversi artisti che da zone dedicate alle principali realtà associative di ricerca operanti dal periodo: da Arte Viva e il Centro Operativo Arte Viva, il Centro La Cappella, lo Studio Tommaseo e il Gruppo ’78. Un sistema di pannelli didattico informativi inquadra il panorama nella sua complessità, oltre ad introdurre il lavoro degli artisti presentati.
Tra gli altri sono rappresentati Luciano Celli, Augusto Cernigoj, Bruno Cheriscla, Enzo Cogno, Antonio Guacci, Ugo Guarino, Emanuela Marassi, Claudio Palcic, Nino Perizi, Cesare Piccotti, Ugo Pierri, Miela Reina, Lucio Saffaro, Livio Schiozzi, Mario Sillani Djerrahian, Antonio Sofianopulo, Franco Vecchiet, Edward Zajec: una selezione di artisti triestini operanti nel segno dell’avanguardia ai quali si aggiunge un importante insieme di grafiche, molte appartenenti alla collezione del museo, e di opere di artisti e autori collegati ai gruppi operativi sopracitati, protagonisti di eventi espositivi particolarmente significativi, tra altri Getulio Alviani e Carlo de Incontrera, Paolo Patelli e Paolo Legnaghi, Otto Muhl e Rudolf Schwarzkogler dell’azionismo viennese. Nello spirito dell’epoca non potevano mancare naturalmente alcuni multipli e le edizioni d’arte.
Uno spazio infine è dedicato al Museo Revoltella che viveva un momento molto particolare. Chiuso per i lavori di ristrutturazione – firmati dal celebre architetto Carlo Scarpa, che verranno ultimati solo nel 1991 – nondimeno fu promotore di una vivace attività “fuori sede”, luogo di accesi dibattiti sul suo futuro e anche propulsore di una politica di acquisti, di cui in questa occasione viene esposta una interessante selezione.
Laura Carlini Fanfogna
Lorenzo Michelli
Azioni precorritrici d’avanguardia
Da La Cavana ad Arte Viva
Il Centro operativo Arte Viva
Solo all’apparenza leggera e ludica, in realtà di altissimo profilo e di grande respiro, nel 1961 prende il via a Trieste l’attività di una galleria d’arte: La Cavana. Due personalità di eccezione si gettano in questa avventura: Miela Reina ed Enzo Cogno che, anche grazie ai contatti coltivati nel periodo della formazione veneziana, organizzano in un breve lasso di tempo (fino al ‘63) una serie di mostre con nomi di eccezione: Dorazio, Mušič, Santomaso, solo per citarne alcuni. Questa attività poi si espande anche in territori altri con il gruppo di Arte Viva. Dalle arti visive all’architettura, dalla musica alle installazioni multidisciplinari. Luciano Semerani nel catalogo della mostra “Anni Fantastici” (Museo Revoltella, 1994) scrive: “Arte Viva ha praticato l’intrufolamento, la spedizione notturna, il viaggio verso alcuni espressionistici labirintici meandri uterini della nostra madre terra, e poi subito dopo, lanci spaziali tra le fredde e lattiginose superfici, alla ricerca della razionalità raggelante del senno perduto racchiuso negli automi e nei computer”. Si tratta di un gruppo di amici, certo, amicizie d’arte. Diventerà un centro operativo che “vede confluire in attività di gruppo e per affinità elettive, l’impegno costante sulle problematiche più attuali del linguaggio musicale, architettonico, visivo e teatrale la progettualità di Carlo de Incontrera, di Gigetta Tamaro e Luciano Semerani, di Miela Reina ed Enzo Cogno, dello scenografo Lauro Crisman e dell’artista fotografo Mario (Piccolo) Sillani” (ibidem).
Il perno di tutto è Miela. Gli spazi quello della libreria Feltrinelli. Tante le collaborazioni: con la RAI, Il Teatro Verdi, il Circolo della Cultura delle Arti, il Deutsche Kultur-Institut.
Tutte queste esperienze iniziate negli anni ‘60 anticipano le sperimentazioni del decennio successivo.
Lorenzo Michelli
GRUPPO78
Nato a Trieste nel 1978 il Gruppo78 ha come obiettivo la promozione e la divulgazione dell’arte contemporanea con particolare interesse alle trasformazioni epocali in atto sul nostro pianeta, alla multimedialità, ai nuovi scenari artistici introdotti dalle tecnologie avanzate, ma anche al rapporto arte moda, alla Public Art, alla riqualificazione dei luoghi abbandonati. Ha realizzato circa 600 eventi, soprattutto internazionali, esportandoli anche in altri paesi (Slovenia, Croazia, Bosnia, Austria, Inghilterra, Stati Uniti, Messico). Ha promosso i giovani, realizzando cicli di mostre internazionali come “Natura Naturans” svolto per 12 edizioni consecutive con svariati approcci tematici. Ha instaurato un ponte culturale con il Messico approdando nel 2013 nelle città di Oaxaca e Torreon mentre nel 2014 h realizzato alle Scuderie del Castello di Miramare a Trieste la mostra “Messico circa 2000” facendo conoscere, per la prima volta in Europa, ben 80 artisti della collezione Josè Pinto Mazal. Negli ultimi anni ha privilegiato il rapporto arte/scienza/tecnologia, producendo nel 2015 la mostra “Aurelia 1+Hz Arte Scienza Biotecnologia”, con la collaborazione dell’Università di Trieste e del Science Centre Immaginario Scientifico, preceduta dalla partecipazione a NEXT, la piattaforma europea della divulgazione scientifica. La mostra è trasmigrata in Messico a San Luis Potosì. Nel 2016 Il Gruppo78 ha poi prodotto “Arte Scienza Tecnologia – LA ROBOTICA” attuando nel 2018 la I° edizione del Festival di Arte e Robotica alla Centrale Idro dinamica del Porto Vecchio, con “Copacabana Machine Sex” , straordinario spettacolo robotico dell’artista canadese Bill Vorn in prima mondiale. L’aspirazione è la continuità di questo percorso, individuando nella nuova interazione uomo-macchina, le ineludibili vie del futuro dell’uomo.
Maria Campitelli
Il decennio 1970 – 1980 al Museo Revoltella
Gli anni Settanta si aprivano al Museo Revoltella con la ‘rassegnazione’ di non aver potuto inaugurare, per diverse motivazioni e complesse criticità, la nuova sede museale su progetto del veneziano Carlo Scarpa, prevista per le celebrazioni del cinquantenario della riannessione di Trieste all’Italia (1968). Per quella storica occasione era stato inoltre progettato un nuovo catalogo delle opere d’arte del museo, a cura dell’Ente Provinciale per il Turismo che, pubblicato nel gennaio del 1970, raccoglieva le biografie di oltre trecento artisti, redatte da Franco Firmiani e Sergio Molesi, futuri illustri componenti del Curatorio, nonché la schedatura tecnica e fotografica di circa cinquecento opere.
LA CAPPELLA UNDERGROUND
14 dicembre 1968, apre la galleria La Cappella. Basta il progetto, Cinema underground, La Cappella Supermartket, Multipli, Computer graphics, Pura Pittura, Fotografia Creativa, Concerto Fluxus. Questi alcuni titoli del calendario dei primi anni di programmazione del neonato Centro di ricerche e sperimentazioni audiovisive; slogan che informano dei tanti polisemici aspetti di una programmazione d’avanguardia aggiornata a quanto si faceva nella penisola. Parallelamente all’estate romana in cui Plinio de Marchis ideò il Teatro delle Mostre, trenta giorni di nuove installazioni, in quella veneziana della Biennale contestata, o nei piccoli paesi in cui il gruppo radicale degli UFO invadeva strade e piazze per interventi nel tessuto sociale, coevi alle tante azioni del gruppo Fluxus che anticipavano molte delle attuali esperienze di arte pubblica e di interventi site specific, a Trieste, un gruppo di giovani, decideva di mettersi in azione nel campo artistico. L’esigenza di capire, di sperimentare e di informare circa la neoavanguardia nelle arti visive come nel cinema, nella progettazione architettonica piuttosto che nel design, trovò un’adeguata cornice in un ampio spazio, modulabile per le diverse esigenze e ristrutturato per l’occasione.
Così si legge in queste stesse pagine di cinquant’anni fa: “Una nuova galleria d’arte – La Cappella – è stata inaugurata a Trieste in via Franca 17. Nuova in verità, per molti e importanti motivi. È nata senza una tradizione alle spalle (…) è organizzata da giovani, freschi ancora d’entusiasmo; è impostata soprattutto secondo criteri attuali, com’è provato dal sottotitolo della Cappella che si denomina Centro di ricerche e sperimentazioni audiovisive. La cornice ambientale prepara il maturarsi di nuove concezioni estetiche e introduce il visitatore all’apprezzamento di esperienze inedite”.
La programmazione si fece subito fitta e le diverse discipline mantennero al contempo una loro autonomia restando fedeli all’assunto di porsi nel campo della ricerca, della novità e della sperimentazione. Il nuovo andava individuato, affrontato. Vissuto. E questo vale per le arti visive, che abbandonavano formati, statuti e consuetudini per gettarsi in azzeramenti e ricomposizioni, negli allestimenti delle mostre che invadevano lo spazio, quasi occupandolo interamente, nel format stesso delle collettive, come ad esempio la Cappella supermartket, in cui era evidente il desiderio di allargare la fruizione dell’arte per renderla consueta nella quotidianità. Il gruppo operava in sincronia e senza alcuna preoccupazione di subalternità con importanti realtà nazionali: dalla galleria il Cavallino, a Marconi, a Filmstudio. Si adoprò per far venire a Trieste critici e progettisti ad illustrare linee e indirizzi della ricerca più aggiornata, da Dorfles a Munari, da Palazzoli, a Vergine a Trini, si trasformò in gruppo operativo per la strutturazione di habitat, per i primi laboratori didattici o per concerti audio/visivi.
Mettersi in azione per recuperare uno stato attivo e non di disagio, come dicono, in un’intervista del ’92 Piero e Annamaria Percavassi, un desiderio di coltivare un certo anticonformismo e calarsi nell’underground che serpeggia al di sotto di ciò che è facilmente ravvisabile, citando Pierpaolo Venier, l’eccezionalità del veder riunite professionalità e personalità diverse ma aggregate dal clima del periodo, sfociarono in questa sorta di laboratorio permanente. Oltre ai sopracitati protagonisti, sono menzionati nel catalogo Anni Fantastici del Museo Revoltella Luciano Celli, Sergio Ghersinich, Lorenzo Codelli, Mario de Luik, Bruno Chersicla, Piccolo Sillani, Mariagrazia Celli, Rosanna Obersnel, Paolo Nait, Claudia Velicogna, Vanni Bandiera, Athos Pericin, Cesare Piccotti, Rosella Pisciotta.
La Cappella poi man mano si orientò sempre più verso il cinema, fu luogo di formazione per chi poi intraprese la strada della critica, divenne luogo di raccolta di un imponente materiale filmico, indicò nuove ipotesi legislative per la valorizzazione dell’arte cinematografica, incoraggiò la filiazione di nuove realtà associative trasformandosi in un esempio di eccezionale longevità nel mondo dell’associazionismo culturale in Italia.
Lorenzo Michelli
Una seconda fase della sezione arti visive de La Cappella, fu diretta da Roberto Vidali. Ecco un estratto della sua testimonianza.
Nel 1974 avevo 21 anni, grandi fantasie artistiche che mi giravano per la testa e nessuna esperienza concreta. Le informazioni che mi avevano proiettato fuori dalla mia città di residenza erano la Biennale di Venezia del 1972, la lettura metodica di “Flash Art” e “Data”. Trieste era una città piuttosto asfittica e di certe cose non si parlava o non c’erano persone pronte a parlarne.
Il Centro La Cappella Underground lo conoscevo perché da qualche anno ero un abituale frequentatore dei film che lì venivano proiettati e delle rassegne che vi venivano organizzate. Per la Cappella, Gianni Contessi vi aveva curato tre mostre sulla pittura analitica e su questi argomenti aveva pubblicato perfino un testo piuttosto complesso su “Flash Art”. Ebbi la fortuna di incontrarlo e con difficoltà cercai di capire il senso delle teorie che aveva espresso sulle opere e sugli artisti che aveva raccolto. Mi confidò che quella era la sua ultima esperienza a Trieste e che avrebbe abbandonato la città, una città che si era rivelata poco generosa e poco attenta alla contemporaneità. Un’analisi che era già stata fatta da altri autori, come ad esempio Enzo Cogno.
Poco dopo la sua fuga da Trieste gli stessi operatori del settore cinema del Centro La Cappella organizzarono la mostra di Pietro Fortuna, autore all’epoca conosciuto non solo per i suoi rapporti di parentela con Loris Fortuna, ma anche perché aveva già fatto una serie di mostre in gallerie di tendenza. Io andai all’opening e ricordo che le persone presenti erano quattro: l’artista, due amiche romane dell’artista, un rappresentante della Cappella. Lo spazio espositivo era la sala da venti per cinque metri, visto che le proiezioni cinematografiche, a causa della scarsa affluenza di pubblico, venivano fatte nella saletta più piccola. Forse debbo dire che ebbi la fortuna di trovarmi nel posto giusto, al momento giusto, senza padrini e senza conoscenze e con l’opportunità di organizzare tutta una serie di mostre fino alla data di chiusura della sede di via Franca per motivi di uscite di sicurezza. I miei punti di riferimento all’interno della Cappella, a fronte di un direttivo di circa una decina di appassionati di cinema, furono Rosella Pisciotta e Cesare Piccotti. L’avvio di questa nuova attività espositiva fu inizialmente affiancato anche da Giorgio Basile, Pierpaolo Bisleri e Antonio Sofianopulo, ma alla fine io rimasi l’unico coordinatore della maggior parte delle mostre che da quel momento furono organizzate. Per esempio con la collaborazione dello Studio Morra e di Pierpaolo Bisleri furono organizzate le mostre di Rudolf Schwarzkogler e l’evento di Hermann Nitsch al Teatro Romano. Appuntamenti che ovviamente la città non comprese e che furono portati avanti grosso modo tra l’indifferenza generale e una generale ostilità delle pubbliche istituzioni.
A partire dal 1974 il Centro ospitò circa sei mostre ogni anno. Ricordo alcuni di questi nomi: Franco Ule, Antonio Sofianopulo, Claudio Massini, Ugo Pierri, Giuseppe Desiato, Riccardo Dalisi, Stefano Di Stasio, Oreste Zevola, Erika Stocker. Portare avanti questa attività non fu facile, ma di certo ci furono eventi che ebbero un grosso seguito e il pubblico, in alcuni opening, toccò anche le ottanta presenze. Ciò era di conforto e se da un lato permetteva di guardare al futuro con maggiore gioia, dall’altro mi offrì l’idea che tutto sommato fondare una rivista d’arte a Trieste non fosse qualcosa di impossibile. Ma questa nuova avventura inizierà il 5 dicembre del 1980, anche con persone conosciute proprio grazie al sodalizio della Cappella, luogo che in quegli anni fu indubbiamente una fucina e un intreccio di situazioni e relazioni, scambi di idee e proposte.
Roberto Vidali
La Galleria Tommaseo
1974-1980
Un incalzante susseguirsi di proposte non facilmente fruibili a Trieste in quegli anni, spesso nate da progetti di estrema arditezza curatoriale, marca l’attività d’esordio della Galleria Tommaseo, già di Emanuela Marassi e Nadia Bassanese, sotto l’effervescente direzione artistica di Franco Jesurun.
In 5 anni e mezzo Jesurun nello spazio di via Canalpiccolo realizza 83 le mostre che, accanto ad una informazione ad ampio spettro sull’arte contemporanea italiana del secondo Novecento, propongono aggiornamenti sulle avanguardie internazionali e autori emergenti.
Tra i primi, da citare almeno la presa diretta sulla Pop Art: nel 1975 la personale di Robert Rauschenberg ≪Brinate≫ e le opere della Castelli Graphics per la collettiva ≪Mirrors of the Mind≫, nel 1979 la mostra ≪Grafica pop americana e inglese≫; sulla Narrative Art: la mostra del 1979 con opere di Bill Beckley, John Baldessari, Christian Boltanski, Peter Hutchinson e Franco Vaccari; sull’Azionismo viennese: è qui esposta la cartella fotografica di un’azione del 1965 di Rudolf Schwarzkogler).
La predilezione per la promozione dei giovani e per l’informazione sulla produzione internazionale diventa subito caratterizzante: una vocazione che porterà Jesurun, affiancato da Giuliana Carbi, a trasformare la galleria in associazione culturale (1993) e a fondare prima l’associazione L’Officina (nel 1981, per convogliare l’interesse pluridisciplinare che stava crescendo) e poi il comitato Trieste Contemporanea (1995, per aprire lo sguardo verso la cultura contemporanea dell’Europa centro orientale).
Giuliana Carbi
La Grafica
È stato ritenuto indispensabile dedicare una sezione della mostra alla produzione grafica. Per questo peculiare tipo di settore artistico è stato riservato il cosiddetto box nero – progettato nel 2010 dall’architetto Gigetta Tamaro – del pianoterra del museo. Come nella sala Scarpa, sono esposte opere di diversi protagonisti triestini del panorama artistico degli anni ’70, assieme a lavori legati ad importanti realtà di ricerca, a loro volta rappresentati con documenti particolarmente rilevanti. Questa sezione presenta, ai lati, opere di autori molto diversi tra loro (Cernigoj, Perizi, Spacal, Vecchiet, Kravos, Zajec, Cogno e Reina) ma accomunati dallo spirito di ricerca. Al centro della sala sono stati posizionati documenti di due realtà protagoniste non soltanto della promozione di questa modalità espressiva ma anche fautori di importanti reti di relazioni e contatti che informarono il pubblico triestino sull’operato di artisti delle regioni limitrofe nonché sulle numerose e prestigiose manifestazioni che si avvicendavano in quegli anni: dalle Biennali d’arte Grafica di Lubiana e Parigi, piuttosto che Trigon a Graz e Documenta a Kassel o i premi nazionali tra Venezia, Roma o Suzzarra. Personalità come Hansi Cominotti, con la galleria La Lanterna, Bruno Ponte e la Cartesius operarono in tal senso per la promozione di una tecnica artistica che è connotata da altre caratteristiche oltre a quelle estetiche: riproducibilità della matrice, conseguente aumento della produzione, economicità e maggiore diffusione.
Lorenzo Michelli
Lavorare sui margini
La particolarità del lavoro dell’incisore consiste nell’affrontare un percorso di lavoro che si sviluppa su piani diversi e si visualizza in momenti successivi. Si procede attraverso numerose bipolarità: segno-carta, superficie-incisione, solco–rilievo, matrice materia-impressione, positivo-negativo, destra-sinistra, inchiostro-acqua, lucido–opaco, coperture–trasparenze… La grafica d’arte definisce così la propria identità attraverso un processo di molteplici contrapposizioni. I differenti momenti del fare, e i piani che emergono dal lavoro sono strettamente collegati tra di loro dalla logica del progetto. Tutto avviene come nelle botteghe artigiane di una volta e continua oggi ancora. Il filosofo Yves Michaud fa notare giustamente che siamo di fronte forse all’ultima resistenza sulla scena dell’arte che non soccombe alla crisi del saper fare, e del mestiere preannunciata da Lèvi Strauss.
Il lavoro diventa lo spazio privilegiato di un dialogo tra mestiere e riflessione, tra conoscenza, e immaginazione. Il bordo di un territorio è allo stesso tempo la linea di demarcazione di un altro territorio. Lavorare ai bordi diventa un’attitudine. La specificità del lavoro e la sua riconoscibilità e unicità rendono la grafica d’arte relativamente isolata sulla scena dell’arte, anche se il campo dell’incisione è in verità un incrocio continuo di pratiche diverse, che si nutre di scambi con le altre attività dell’arte: il disegno, la fotografia, la pittura, il libro d’artista, il mondo dell’elettronica. A spazi diversi di riflessione corrispondono approcci, manualità e risultati diversi.
Così è iniziato nella metà del secolo scorso un periodo di rinnovamento fondamentale ed entusiasmante e per la grafica d’arte con il suo apice negli anni Settanta.
L’impulso rinnovatore è stato anche la conseguenza, sia dalla rivisitazione delle avanguardie storiche e dell’esperienza del Bauhaus, che dall’industria chimica con i suoi nuovi prodotti immediatamente utilizzati dagli incisori nel loro lavoro. Sono emerse in questo modo nuove tecniche, nuove possibilità espressive, e linguaggi inediti. Accanto alle Accademie di Stato ancora tradizionali, sono nate le famose scuole private di incisione, come la Scuola di Henri Goetz a Parigi, “L’atelier 17” di William Hayter a Parigi e a New York, e la scuola-galleria di Johnny Friedlaender dove si insegnava la nuova grafica. Giovani artisti di tutto il mondo si affrettarono a seguire questi insegnamenti per poi diffonderli nel mondo intero. Anche nella nostra città e nelle regioni a noi attigue abbiamo sentito le vibrazioni del cambiamento dell’arte incisoria. La nuova immagine della grafica è stata vista come figlia del progresso democratico, di una società diversa rivolta al futuro. Questa dialettica nell’arte ha fatto emergere contrasti, e contraddizioni, ma anche ricomposizioni e zone di valore di grande dialogo e gioia.
Franco Vecchiet
Performance
FEMMINISMO
ARTE MOLTIPLICATA
Franco Jesurun è pioniere molto attento ai cambiamenti espressivi e ai nuovissimi temi del decennio: la performance e l’arte femminista sono cruciali nel suo piano di sviluppo espositivo 1976-78 per la Galleria Tommaseo.
È del 1976 la potente mostra femminista ≪L.H.O.O.Q.≫ a cura di Romana Loda. Poi una prima personale di Renate Bertlmann nello stesso anno, seguita da una sua seconda mostra nel 1978, dall’emblematico titolo di ≪Ur-vagina≫. Stessi anni per le due personali alla Tommaseo di Emanuela Marassi che nel 1974 aveva fondato il gruppo femminista ≪Mareba≫ con Bertlmann e Barbara Stradthee. L’artista triestina nel 1978 è presentata da Gillo Dorfles ed è molto attiva nelle performance (è di quest’anno ≪La donna è un S–Oggetto kitsch?≫). Poi nel 1979 un altro progetto di Marassi, ≪Rosa – Profondo≫ con Elio Marchegiani, promosso dalla Tommaseo anche in altre sedi italiane. Nel 1977 la storica performance di Sanja Iveković ≪Inaugurazione alla Tommaseo≫. Nel 1978 l’iconica personale di Urs Luthi.
Nel mentre la ≪scuderia≫ locale è solidamente formata: oltre che da Marassi, da Luciano Celli, Bruno Chersicla, Livio Schiozzi (che anche disegna i cataloghi quadrati della galleria), Mario (Piccolo) Sillani ed Edward Zajec e allargata verso Venezia a Paolo Patelli e Fabrizio Plessi). E già si apre la straordinaria intuizione di Jesurun sul valore del lavoro di Maria Lai, di cui espone nel 1980 la produzione 1979.
La storia italiana degli anni Settanta vede crescere un importante fenomeno: l’attestarsi dell’uso delle opere d’arte moltiplicate. Per questo la produzione grafica della Tommaseo e la documentazione del progetto ≪MOLTIPLICAZIONE≫, ideato da Jesurun nel 1976, rappresentando esemplarmente l’effetto dei suoi interessi curatoriali che si trasforma in reale, fisico propellente di divulgazione artistica, sono state scelte come focus dell’esposizione.
Giuliana Carbi