Autoritratti triestini. La donazione Hausbrandt

A cura di Susanna Gregorat

Dal 2011-01-14 al 2011-05-01

AUTORITRATTI TRIESTINI – LA DONAZIONE HAUSBRANDT

Museo Revoltella, 15 gennaio – 6 marzo 2011

 

 

Nel 2010 gli eredi di Roberto e Lylla Hausbrandt hanno donato al Museo Revoltella un’importante opera di Marcello Mascherini, il bronzo “Eva” datato 1940 e considerato unanimemente dagli studiosi uno dei pezzi più significativi dello scultore triestino. La donazione si inserisce in un rapporto che ormai dura da oltre cinquant’anni con la famiglia Hausbrandt, iniziato quando Roberto Hausbrandt, uno dei più noti industriali del caffè d’Italia, nel 1958, decise di donare al museo una collezione di quarantacinque autoritratti acquistata dal triestino Luigi Devetti, gestore di una famosa trattoria in via del Toro, frequentata fin dagli anni Venti dagli artisti della città. Amico di tutti i più famosi pittori, ma anche mecenate e generoso ospite nel suo accogliente locale, Devetti aveva perseguito per una trentina d’anni un obiettivo abbastanza insolito: formare una collezione esclusivamente dedicata all’autoritratto, un genere poco presente nel mercato dell’arte, per la comprensibile ritrosia degli autori a privarsi di un lavoro fatto per sé.  Con molta tenacia riuscì a procurarsi gli autoritratti dei maggiori artisti della città, ma anche di giovani esordienti, che spesso gli cedevano la propria effigie in cambio di pasti. Anche le tecniche sono tutte rappresentate: ci sono in maggior parte oli su tela, ma sono presenti anche acquerelli, disegni a matita, pastelli, tecniche miste, una xilografia, una scultura in bronzo e due gessi.

Gli artisti più noti della sua raccolta sono Parin, Rietti, Barison,Rovan, Passauro, Lucano, Sbisà, Sofianopulo, Lannes, Mascherini, Asco, Bergagna, Rossini, Timmel, ecc,

In seguito Hausbrandt raccolse a sua volta quattordici autoritratti e fece un’ulteriore donazione tra il 1962 e il 1967 (in cui rientrano altri nomi importanti come Nathan, Piero Marussig, Malacrea, Stultus, Daneo, Brumatti, Orlando) per aggiungere ancora un autoritratto quasi trent’anni dopo, nel 1994 (Celiberti). Scomparso nel 1997 e, morta nel 2003 anche l’amata consorte Lylla, compagna di interessi culturali e creatrice, con lui, della collezione di famiglia, i figli Roberto, Erika ed Elisabetta, hanno voluto onorare la memoria dei genitori ancora con due donazioni straordinarie: l’Autoritratto (Le chapeau rouge) di Leonor Fini (1968) e, appunto,  il bronzo di Mascherini.

In quest’occasione si è deciso di dedicare alla donazione una mostra e un catalogo, nel quale sono inserite le illustrazioni e le schede critiche di tutte le opere. Curato da Susanna Gregorat, conservatore del Museo Revoltella, il volume ospita testi di Maria Masau Dan, Nicoletta Bressan, Barbara Coslovich.

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DAL CATALOGO DELLA MOSTRA:

 

Maria Masau Dan

Quando il collezionismo è generosità

Questa storia accomuna due personaggi triestini, Roberto Hausbrandt e Luigi Devetti, che più diversi non potrebbero essere, eppure in una breve fase delle loro vite, così distanti fra loro, sono stati uniti dall’amore per la cultura e per la propria città, riuscendo a trasformare quello che sarebbe potuto restare solo un passaggio di proprietà di quadri in un gesto di portata storica.

Roberto Hausbrandt è stato uno dei più importanti industriali del caffè d’Italia, erede e continuatore di un’azienda che già alla fine dell’Ottocento aveva contribuito allo sviluppo di un settore destinato ad assumere un’importanza sempre maggiore nell’economia dell’area triestina. Ha avuto, però, la fortuna e la capacità di apprezzare anche la letteratura e l’arte, coltivando queste passioni con la stessa serietà con cui ha seguito l’amministrazione della sua azienda e, proprio per questo, ha saputo riconoscere il valore di una collezione che ai più sarebbe potuta sembrare bizzarra, o finanche noiosa, mentre a un vero conoscitore d’arte non poteva che svelare immediatamente la sua eccezionalità.

Luigi Devetti è certamente una figura più difficile da mettere a fuoco e da collocare in un contesto sociale preciso, come possiamo fare per Hausbrandt, esponente tipico di quella borghesia imprenditoriale illuminata che, negli ultimi due secoli, ha determinato i destini di Trieste. Devetti, nato nel 1883, è un uomo del popolo, ma anche un artista mancato, che pragmaticamente smette, poco dopo i vent’anni, di inseguire il sogno di diventare scultore e apre una semplice trattoria, riuscendo, però a trasferirvi le vecchie amicizie e a farla diventare un luogo di incontro di artisti e intellettuali. Nel 1923, quando si insedia nel locale di via del Toro lasciando piazza Goldoni, la vita artistica è in piena ripresa dopo la fine della prima guerra mondiale. Un volume uscito l’anno prima per le edizioni de “L’Eroica”, Pittori e scultori di Trieste, scritto dal giornalista del “Popolo di Trieste” Salvatore Sibilia, contiene trentotto profili di artisti contemporanei “non dilettanti”.  Troppi, obietta Ettore Cozzani, ma per l’autore il caso di Trieste è particolare: “Trieste s’è trovata nella possibilità di avere un numeroso cenacolo d’artisti per la sua posizione di città di confine, di occupazione austriaca e di sentimenti italiani.”  Non molto lontano da lì si sta preparando una nuova sede per le mostre d’arte, il Padiglione del Giardino pubblico, dove nel settembre del 1924 verrà allestita la I Biannuale del Circolo Artistico, la prima occasione espositiva del dopoguerra per gli artisti triestini “or ora redenti” (Sibilia). E’ anche una fase di ricambio generazionale che vede esaurirsi,  sia pure lentamente, l’egemonia degli artisti nati intorno agli anni ottanta dell’ ‘800, coloro che avevano compiuto gli studi e iniziato a esporre sotto l’Impero, importando a Trieste i modi appresi nelle accademie di Monaco e Vienna, per lasciare il posto ai giovani che ormai ripongono tutte le speranze nell’appartenenza alla cultura italiana.

Quale sia il punto di partenza della collezione di Luigi Devetti  non è dato sapere, ma certamente fin dall’inizio la sua raccolta ha una caratterizzazione locale, probabilmente nata dalla sua vicinanza a una cerchia di artisti-decoratori incontrata durante il suo apprendistato e poi, cresciuta attraverso il rapporto diretto con gli artisti, vagliando le offerte che, in quegli anni di miseria, gli pervengono a domicilio, in trattoria, spesso come pagamento di pasti. Come risulta dalle poche notizie reperibili, inizialmente la raccolta spazia tra diversi soggetti e comprende autori ben noti come Flumiani, Cambon e Orell, di cui non c’è traccia, però, nel nucleo acquistato da Roberto Hausbrandt e donato al Museo Revoltella.

Al di là del gusto personale, la molla che fa nascere e crescere la raccolta è certamente il senso di appartenenza a un mondo e il desiderio di restare al suo interno, anche con un ruolo diverso. E’una forma di  mecenatismo, sentito tuttavia più come obbligo morale che come espressione di sensibilità e di cultura. Ed è forse questa solidarietà, unita all’ammirazione per il coraggio di coloro che tenacemente cercano di vivere di pittura, a fare crescere in lui l’interesse per la persona dell’artista prima che per la sua pittura e a fargli decidere, probabilmente intorno al 1928-29, di specializzare la collezione nell’autoritratto. Una scelta curiosa, in cui il collezionista si mette in secondo piano, rinunciando a esercitare la libertà tipica di chi valuta tra le opere appese in una galleria o in uno studio, e riducendosi a chiedere, a sperare in un sì, che probabilmente non arriva subito, ma solo quando l’artista decide di dedicarsi all’autoritratto e, soprattutto, quando è disponibile a privarsene.

L’autoritratto, unendo autore e soggetto, non è un’opera qualsiasi, come una vastissima letteratura ha ben documentato e analizzato, ma un’incursione degli occhi altrui nell’intimità dell’artista, una confessione, una chiave d’accesso ai suoi segreti. Per contro può essere anche uno strumento usato dall’artista per mascherarsi, per promuoversi, per irridere gli altri. Non è comunque un’opera minore o secondaria, anche quando non è riuscita al meglio dal punto di vista tecnico: il suo valore di testimonianza, volontaria o involontaria, è sempre molto alto. Fare un autoritratto è difficile, anche se il soggetto è sempre a portata di mano, non condiziona come un modello in posa e non se ne avrà a male, o peggio, non salderà il conto, se l’opera non sarà somigliante come nelle sue attese… Occorre usare lo specchio e accettare il vincolo della posa di tre quarti, ma, soprattutto, scegliere l’immagine che si vuole dare di sé, che non sempre coincide con ciò che lo specchio rimanda. Ma il problema si complica ulteriormente se l’artista vuole trovare una sintesi non solo tra la sua immagine interiore e ciò che vede allo specchio, ma anche fra questo e l’immagine che di lui hanno, o dovrebbero avere, gli altri.

Questo gioco di rimandi fra soggettività e oggettività rende l’autoritratto un tema affascinante e sfuggente, di cui la collezione di oltre sessanta pezzi giunta al Revoltella tramite Roberto Hausbrandt  fornisce una vasta gamma di varianti, configurandosi come una delle maggiori raccolte museali di autoritratti e, perciò, interessante e prestigiosa anche al di là della sua collocazione territoriale.

Occorre distinguere, però, tra il nucleo principale, i quarantacinque autoritratti commissionati o acquistati da Luigi Devetti e l’integrazione di altre diciassette opere voluta in seguito da Roberto Hausbrandt e dai suoi eredi.

Nella raccolta Devetti, un caso davvero eccezionale, c’è una forte componente di coinvolgimento personale, e si può immaginare facilmente che l’essersene dovuto separare, dopo trent’anni di convivenza con una schiera di “amici” così folta e colorata, volti che hanno animato la sua quotidianità e arricchito i suoi sogni, sia stato un vero dolore, confortato solo dalla bontà delle mani in cui passava questo patrimonio di vita e di ideali. Le dediche apposte su circa un terzo di queste opere sono rivelatrici di una realtà umanamente ricca e ben diversa da un rapporto di “dare-avere” con l’arte. In gran parte si rivolgono all’ “amico” Devetti (Bergagna, Bidoli, Brizzi, Cuccoli, Meng, Ticulin), ma anche al “caro”, “carissimo” amico (Lannes, Righi, Rossini) o, “al simpatico Devetti” (Toppi), mentre qualcuno dei giovani (Brizzi, Mascherini) gli dedica l’opera con un rispettoso “signor Devetti” o “sig. Devetach” nella formua pre-italianizzazione, e il solo Sbisà lo qualifica come “appassionato collezionista”. Dei trentotto profili selezionati da Sibilia mancano solo gli artisti più anziani e gli emigrati, ma ci sono tutti quelli che negli anni venti operano sul campo, sono presenti alle mostre triestine, sognano la Biennale di Venezia e frequentano i caffè e la sua trattoria,  da Parin a Levier, da Rietti a Sofianopulo, da Timmel a Rovan, compreso Sergio Sergi, uno dei due illustratori del libro, con il suo autoritratto a xilografia.  Anzi ce n’è anche qualcuno in più, sconosciuto a Sibilia o dimenticato, come Asco, Bidoli, Righi, Silvestri, ecc. Insomma la raccolta di Devetti rappresenta davvero l’ambiente artistico triestino più vero, e non solo in quel momento difficile, e nel contempo entusiasmante, che sono gli anni venti, ma per un lungo periodo ancora, fino agli anni cinquanta.

Quanto Roberto Hausbrandt abbia creduto in quest’impresa di Devetti, che ha trasformato la passione personale e un insieme di circostanze forse casuali, nella creazione di un archivio prezioso del Novecento, è dimostrato dalla volontà di continuare subito a cercare per proprio conto, ad aggiornare la raccolta, a colmare le lacune del passato e a fare suo il “progetto autoritratto”, agendo non per sè ma in nome della città, a cui, non solo con la donazione, ma soprattutto con l’attenzione per i contenuti, la costante vicinanza al Museo Revoltella anche della sua famiglia, la discrezione e il rispetto per l’istituzione, ha dato un esempio di altissimo valore culturale e morale.

 

Susanna Gregorat

I protagonisti della scena artistica triestina nella donazione di Roberto Hausbrandt al Museo Revoltella. Breve guida al percorso della mostra.

 

«L’artista, il suo volto, il suo io: molto spesso un autoritratto vale più di tanti quadri e molto più delle parole per comprendere gli intenti di un artista. Può comunicare quello che l’artista confessa di essere. Può dirci come l’artista vuole che gli altri lo vedano. Può rivelare quello che l’artista, nel momento che si è visto riflesso, inconsciamente, pensava di se stesso. Io, es, super-io e così via: analiticamente[1]

 

La galleria di autoritratti di artisti, per la maggior parte triestini, riuniti in questa mostra, offre l’insolita opportunità di porre a confronto un grande numero di personalità e di linguaggi artistici, attraverso l’analisi dei loro tratti fisionomici e delle espressioni in cui ognuno si è voluto raffigurare.

Ciascuno esprime il proprio tempo ed è testimone, mediante la sua opera, di una determinata fase artistica, all’interno di un esteso campionario di stili: in questo modo, si va dall’impostazione tradizionale del ritratto degli anni Quaranta-Cinquanta dell’ ‘800 di Francesco Malacrea, sorta di carte de visite in cui il pittore, pur famoso per la sua stravaganza, si ritrae in modo convenzionale dal punto di vista compositivo, ma evidenziando il taglio a pizzetto della barba, che nell’Ottocento era per lo più in uso tra i patrioti e i carbonari, fino ad arrivare all’Autoritratto di Giorgio Celiberti, eseguito quasi un secolo dopo, in cui la veemenza dell’Informale si riflette nelle pennellate corpose e gestuali di quest’opera, appartenente al cosiddetto “periodo nero” del pittore friulano.

Il rigore accademico, fondato sul disegno e sulle stesure compatte di colore, che caratterizza la gran parte delle opere di Giuseppe Barison, si stempera in un fare pittorico più rapido e meno dettagliato nell’Autoritratto del 1884, in cui risulta evidente l’influenza del linguaggio artistico del veneziano Giacomo Favretto, a cui Barison guarda negli anni della sua permanenza nella città lagunare.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del secolo successivo si colloca il Ritratto di Eugenio Scomparini, tradizionalmente ritenuto un autoritratto (così è riportato nell’inventario del Museo), ma forse eseguito da altro pittore, che pur condivide con Scomparini l’intento veristico, ottenuto mediante una qualità pittorica sgranata e dai toni caldi, ugualmente ravvisabili nel sicuro Autoritratto del 1913 dello stesso artista, realizzato proprio al termine della sua esistenza.

Altrettanto veristico, ma appesantito da un’espressione desolatamente triste, risulta l’Autoritratto a matita di Arturo Fittke (1909), eseguito un anno prima del suo suicidio. Il volto affilato e teso dello sfortunato pittore è reso ancor più inquietante dall’ombra profonda che pervade gli occhi, grandi e angosciati.

Allo stesso periodo risale uno dei dipinti più importanti e significativi dell’intera raccolta, l’Autoritratto di Vito Timmel (1910), che presenta i caratteri tipici della ritrattistica secessionista, connotata da una forte contrapposizione dei chiaroscuri. Il marcato contrasto tra la parte del viso esposta alla luce intensa e quella rimasta in ombra sembra rimandare al conflitto, a livello psichico, tra la dimensione conscia e quella oscura. Espressiva di uno stato emotivo fragile e tormentato è anche la fissità dello sguardo, come concentrato in un difficile scandaglio interiore.

Di pochi anni più tardi è l’Autoritratto (1914) di un altro grande pittore triestino, Piero Marussig, l’unico ad aver avuto una certa notorietà a livello nazionale, avendo fatto parte del movimento artistico del Novecento, fondato nel 1922 da Margherita Sarfatti. Prima dell’esperienza “novecentista”, Marussig sperimentò, tuttavia, uno stile impreziosito da una gamma cromatica fondata sui toni verdi, rosa, lilla e azzurro, ben racchiusi in campi delimitati da un contorno colorato, alla maniera di Gauguin e dei pittori postimpressionisti francesi. Le vedute, i numerosi ritratti e le numerose varianti dei suoi autoritratti, eseguiti successivamente alla sua permanenza parigina (1906), risentono di queste inconfondibili e raffinate declinazioni stilistiche.

Giovanni Zangrando, pittore soprattutto noto per la sua eccellenza nel genere ritrattistico, si trovava a Firenze quando realizzò questo Autoritratto (1917), in cui si rilevano i caratteri tipici del “manierismo impressionista mitteleuropeo” (Da Nova). Esso si fonda su poche tonalità terrose che accomunano l’autoritratto alla ritrattistica coeva di questo pittore, originario di Vodo di Cadore, nel bellunese.

Dello scultore Franco Asco, che rappresenta la generazione affermatasi nei primi anni Venti, vediamo esposti due singolari e preziosi autoritratti: un ritratto giovanile realizzato con gessetto e carboncino (1919), e una testa in bronzo stilizzata, eseguita molti anni più tardi (1950). Pur d’impostazione accademica, l’autoritratto del ’19  rivela l’innata abilità grafica dell’autore, che fa emergere i volumi dallo sfondo grigio, anticipando la forza espressiva e la compattezza formale della successiva produzione scultorea. L’autoritratto del ’50 testimonia, invece, il cambiamento decisivo del suo linguaggio scultoreo in direzione di una maggior semplificazione plastica, che pone in risalto l’espressione sofferta del volto, molto vicino agli esiti formali di Arturo Martini e Marino Marini.

Nome forse un po’ dimenticato dalla critica e dal pubblico triestino, Sergio Sergi era un appassionato della tecnica xilografica di cui l’Autoritratto (1923), esposto in mostra, ci offre un esempio particolarmente suggestivo, realizzato a “lume di candela”.  Assieme a Franco Cernivez, di cui il Museo Revoltella possiede alcune opere tra cui un significativo Autoritratto, Sergi realizzò nei primi anni Venti i ben noti ritratti xilografici a corredo delle biografie artistiche di Salvatore Sibilia. [2]

Risale al 1924 l’Autoritratto in gesso di un altro scultore, Ruggero Rovan, artista che per un certo periodo studiò e visse a Monaco di Baviera, assieme ad altri amici artisti triestini (Veruda, Grünhut e Wostry). L’opera è verosimilmente una riedizione di un autoritratto giovanile. Lavorando sul proprio volto, anche se idealizzato, lo scultore si mantiene vicino al dato reale, dimostrando ancora una volta una innata predisposizione per il verismo anatomico. Ancora al 1924 appartiene l’opera di Santo Bidoli. In pieno clima di ritorno alla tradizione e di celebrazione del classicismo, l’artista riprende senza remore la tecnica del pointillisme francese e del divisionismo italiano, stendendo il colore mediante brevi pennellate, che appaiono uniformi guardando l’opera da una certa distanza.

Alla metà degli anni Venti risalgono tre autoritratti di particolare interesse anche per la varietà degli stili che rappresentano. Se infatti l’originale Autoritratto (1925) di Giacomo Covacci, dalle evidenti lumeggiature che sbalzano con forza i tratti del volto dal fondo scuro, è quanto di più lontano, per la sommarietà d’esecuzione, dal plasticismo novecentista, allora in via d'affermazione, a sua volta l’ Autoritratto dell’anziano Arturo Rietti, (uno degli innumerevoli autoritratti di questo artista ossessionato dalla sua immagine) sembra non risentire dei tempi nuovi, e ripropone il tocco leggero per il quale i suoi pastelli avevano avuto fin dal primo Novecento un grande successo anche in ambito milanese.

Diversamente dai due artisti appena citati, assegnabili grosso modo alla tradizione triestina d’impronta secessionista, Giovanni Poliak (Nino Poliaghi) adotta nel proprio ritratto un linguaggio più attuale, che rispecchia la temperie artistico-culturale di quegli anni a Trieste e si tratteggia mediante rapide linee svirgolate, in linea con la grafica cubo-futurista, similmente rilevabile nei disegni di Veno Pilon, di Miha Maleš, di Luigi Spazzapan e di Ivan ÄŒargo.

Dinamismo e inusuale taglio compositivo sono le principali caratteristiche dell’Autoritratto del 1926 di Gianni Roma, dominato da una stesura cromatica vivace e calda che accentua l’espressione scanzonata del personaggio.

Risale al 1927 l’Asceta di Arturo Nathan, uno degli autoritratti più noti e pubblicati del pittore triestino, oggetto di studi psicoanalitici e di confronti ripetuti con la ritrattistica antica. In questa enigmatica raffigurazione dell’artista di origini ebraiche sembrano convivere richiami occidentali e orientali, quasi a rappresentare simbolicamente la sua duplice origine: la solennità della posa, la fissità ieratica del volto e la foggia indiana della tunica, riecheggiano il mondo orientale, mentre il nitore del segno, l’uso sapiente della luce e l’impostazione quattrocentesca del ritratto paiono riallacciarsi alla tradizione artistica occidentale, reinterpretata in chiave moderna.

La tipologia dell’artista che si raffigura nel proprio atelier, o si ritrae con alcuni strumenti specifici del suo lavoro, ricorre in sette casi nel nostro contesto: Vittorio Bergagna, che nel 1928 realizza l’autoritratto nel suo studio con cavalletto e colori, riflette la sensibilità del cosiddetto “ritorno all’ordine”, fase in cui questa versione di autoritratto è molto frequente, poiché il ruolo dell’artista viene esaltato in qualità di magister artium e la sua attività è pertanto vista nella sua “forma” tradizionale.

Nel filone dell’ “autoritratto professionale” va inserita l’interpretazione più tarda di Edoardo Devetta, che nell’Autoritratto del 1962, in piena temperie “informale”, fa prevalere le macchie di colore, in cui appaiono sbozzati ambiente, oggetti e figura. Nello stesso anno Dyalma Stultus, pittore che aveva avuto il suo momento migliore negli anni Trenta, compone un autoritratto di ‘segno opposto’ rispetto a quello di Devetta, pur nella comune esaltazione del colore: Stultus non rinuncia al plasticismo e all’armonia compositiva di matrice geometrica, ma lo “aggiorna” con una composizione astratta sullo sfondo. Nella straordinaria versione di Mario Lannes (1929), l’atelier con i dipinti accatastati lo si intravede appena alle spalle della imponente figura del pittore, caratterizzata dalla salda compostezza dei volumi e dal suggestivo chiaroscuro, aspetti che risentono fortemente del classicismo del Novecento Italiano. Il copricapo funge anche da stratagemma pittorico per esaltare la forza comunicativa dello sguardo: la sua falda crea infatti una scura fascia orizzontale che, attraverso la parallela delle arcate sopraccigliari, rimanda all’asse degli occhi, puntati sull’osservatore.

La tipologia del “ritratto professionale” ritorna ancora nell’Autoritratto da giovane (1940 circa) di Rinaldo Lotta, un artista che in seguito sarà coinvolto nella sperimentazione neo-cubista ma qui ci offre un’interpretazione ancora convenzionale, in cui il colore, steso a tocchi rapidi e densi di materia, supporta l’espressione intensa e coinvolgente del soggetto.

Fedele alla tradizione si manterrà sempre, invece, Riccardo Bastianutto, che nel 1950 propone sé stesso in un’immagine classica, ritraendosi  di tre quarti a mezzo busto, con camice, tavolozza e pennelli, gli strumenti identificativi del suo mestiere.  La concentrazione dello sguardo è enfatizzata dal contrasto tra la nitida definizione del volto e il carattere appena abbozzato del resto.

L’Autoritratto ad olio (1955) di Piero Lucano è anche l’ultimo autoritratto della sua lunga carriera artistica, e rappresenta un’ulteriore variabile della tipologia appena considerata: con la consueta maestria, memore della rigida formazione accademica, il pittore si raffigura nel suo mondo quotidiano (si scorge la tavolozza e il pennello), ma l’atelier sembra essere rovinosamente crollato alle sue spalle. In realtà, sullo sfondo (come si vede in un precedente Autoritratto a matita datato 1943), è riprodotto un dipinto dell’artista, che aveva fermato sulla tela un catastrofico terremoto (Prima ora, 1933).

Tornando al percorso cronologico, ritroviamo una grande concentrazione di autoritratti tra la fine degli anni Venti e gli anni Quaranta.

Risalgono al 1928 gli autoritratti di Orfeo Toppi, di Giovanni Giordani e dello scultore Marcello Mascherini. Il ritratto a carboncino e gessetto del marchigiano Orfeo Toppi, che appartiene alla fase giovanile della sua produzione artistica, si distingue per la struttura plastica del volto, dominato dall’intensità degli occhi grandi e fortemente espressivi. Allo stesso modo, l’Autoritratto a carboncino di Giovanni Giordani, rivela un’abilità considerevole nella salda costruzione del volto e nella forza espressiva dello sguardo. Per affinità “parentale”, va citato a questo punto il più tardo Autoritratto di Frida de Reya (1946), che si era sposata con Giordani  nel 1929. Definita da Silvio Benco come “una delle migliori pittrici nostre”, quest’artista si distinse per la grazia e la raffinatezza del tocco artistico, ravvisabile anche in questo delicato ma intenso ritratto.

L’Autoritratto in gesso di Marcello Mascherini, la cui prorompente espressività non occorre neppure sottolineare, si colloca nella produzione giovanile dello scultore (nel ’28 aveva ventidue anni), in un momento in cui le sue doti artistiche erano già riconosciute dal pubblico triestino. Ciò spiegherebbe in parte l’espressione fiera e determinata del soggetto, da Giulio Montenero principalmente ricondotta all’ascendente “wildtiano”: la maniera di realizzare l’incavo degli occhi, le sopracciglia corrugate e le mandibole scavate, ricordano effettivamente le opere di Wildt  d’inizio Novecento.

Al 1929 risalgono ben sette autoritratti della donazione Hausbrandt, tutti caratterizzati da una sostanziale fedeltà alla tradizione accademica, appena corretta da una certa scioltezza pittorica. Spicca il volto di uno dei maestri del Novecento triestino, Gino Parin (1920-1930), senz’altro uno degli autoritratti più affascinanti della raccolta, che si fonda sul recupero del disegno in funzione di una suggestiva espressività, inquietante ed enigmatica. Alla singolarità dell’immagine concorrono certamente la frontalità della posa e lo stravangante copricapo orientale.

Di qualità inferiore ma ugualmente originale è l’Autoritratto dell’esordiente Giuliano Brizzi, in cui contrastano la normalità della figura, avvolta in cappotto e sciarpa, e l’enigma dei rimandi simbolici del dipinto (la corona sospesa e l’allusione al mistero religioso della Trinità), in un contesto compositivo che riecheggia le “pale d’altare” rinascimentali. L’Autoritratto a carboncino di Santo Lucas, al contrario, è volutamente realistico e denota un’ottima padronanza dei mezzi grafici, considerata la giovane età dell’artista. Il suo volto dai lineamenti duri è valorizzato da uno sguardo intenso e indagatore. Altrettanto magistrale appare il tratto grafico del contemporaneo Autoritratto a matita di Edmondo Passauro, che svela le sue aspirazioni di “arbiter elegantiae” rappresentandosi di profilo, mentre tiene tra le dita affusolate una sigaretta, con aria distante e abbigliamento da dandy. La stessa eleganza disegnativa è rintracciabile nei ritratti ad olio di questo artista, che fu amico del pittore e incisore triestino Bruno Croatto e a lui assimilabile per la nitidezza e l’effetto di estrema verosimiglianza delle immagini.

Nell’Autoritratto di Antonio Quaiatti, eseguito all’età di venticinque anni, l’artista rinuncia alle eleganze lineari della sua produzione cartellonistica, per una maggior plasticità volumetrica di derivazione novecentista. Pur nell’essenzialità della rappresentazione, il dipinto rivela un attento studio compositivo, in cui Quaiatti si ritrae con il busto girato di profilo e il volto frontale, posa che suggerisce un effetto di movimento rotatorio, ripreso dal suo sguardo sfuggente rivolto a sinistra.

Quello di Romano Rossini, ancora del ’29, sembrerebbe essere l’unico autoritratto del popolare pittore, a Trieste ricordato per lo più per la sua produzione paesaggistica. Quarantenne, il pittore sceglie di ritrarsi a mezzo busto e nella posa di tre quarti, scegliendo anch’egli una versione da uomo elegante piuttosto che da “artigiano”. La sobrietà cromatica d’insieme, studiata nei modulati accordi cromatici, è animata soltanto dalle tinte vivaci del papillon.

E su una cravatta speciale, in questo caso ‘a fiocco’, punta anche l’Autoritratto di Mario Ticulin, pittore ma basato su un’ impostazione di tipo tradizionale, ma vivacizzata da un fare pittorico rapido, riscontrabile anche nelle sue numerose marine.

Addentrandosi negli anni Trenta, incontriamo di nuovo personalità molto varie, influenzate da stimoli di diversa provenienza.

Nel caso di Adolfo Levier conta soprattutto l’esperienza degli anni trascorsi a Parigi, nel primo decennio del XX secolo, a contatto con le opere dei pittori postimpressionisti e dei fauves. E’ questo che determina l’unicità del suo stile, dominato da pennellate vigorose e dense di colore, le stesse che troviamo nell’Autoritratto del 1932.

Risalgono al 1934 i tre autoritratti di Cesare Sofianopulo, Federico Righi e Franco Orlando.

Il doppio-autoritratto di Cesare Sofianopulo, senz’altro il più intrigante dei tre citati, dal punto di vista dell’ideazione compositiva, costituisce l’ennesima raffigurazione dell’artista che, come Rietti, fu ossessionato dalla propria immagine e si dedicò con impegno all’ autoritratto, di cui si serviva per indagare sulla propria interiorità. Mediante un linguaggio vicino al Novecento italiano, nitido e cristallino, l’artista quarantacinquenne rappresenta, anche con piglio ironico, la metamorfosi che il tempo ha prodotto su di lui, sorreggendo un ritratto giovanile del 1908.

Il pastello del più giovane Federico Righi, realizzato dopo un paio d’anni dal suo esordio artistico e dalla sua breve adesione al Movimento Futurista, rivela una notevole sicurezza espressiva, sia per l’energia del segno che per l’audacia degli accostamenti cromatici (i gialli e i verdi acidi dell’incarnato), in sintonia con risoluzioni di tipo espressionistico e, in ogni caso, non tradizionale.

L’Autoritratto a matita di Franco Orlando, all’opposto, risente della ritrattistica del suo tempo, imperniata sul recupero della tradizione artistica italiana e sull’esaltazione del disegno e della costruzione prospettico-spaziale quali elementi fondanti della composizione. Le arcate dechirichiane sullo sfondo rimandano all’architettura del ventennio e la Venere antica è riferibile al mito della classicità, intesa come repertorio a cui attingere valori ideologici e modelli artistici. Molto diversa, dal punto di vista stilistico, è l’interpretazione che Orlando dà di se stesso nell’Autoritratto ad olio del 1959. Se, infatti, posa ed espressione dell’artista sono pressoché analoghe all’autoritratto di venticinque anni prima, del tutto mutato è il linguaggio, qui costruito su piani colorati ed intersecati e stilisticamente vicino al coevo dipinto del Museo Revoltella intitolato Estate.

Difficile trovare tra i nomi degli artisti più frequentemente citati sulle pagine dei quotidiani locali, nelle lunghe recensioni delle esposizioni regionali e sindacali, il nome di Rodolfo Cebochin, una figura rimasta ingiustamente sconosciuta. Il suo Autoritratto (1935), tuttavia, denota una certa sapienza compositiva e pittorica, unita alla capacità di valorizzare l’approfondimento psicologico del soggetto. Il disegno, modulato attraverso un efficace chiaroscuro, fa risaltare il rilievo plastico del volto ingrandito.

Appartiene, invece, al 1937 l’Autoritratto di Osvaldo Pickel, un altro artista poco noto ma dalle capacità tecniche e interpretative indiscutibili. Ciò è testimoniato dal raffinato trattamento della luce che connota il suo ritratto, sorprendente per la contrapposizione “fotografica” tra l’oscurità totale dello sfondo e l’ampio risalto luminoso conferito al busto e al volto dalla luce diretta.

Certamente più conosciuto in qualità di architetto, Ramiro Meng, tuttavia, si considerava soprattutto pittore. Il suo Autoritratto (1938) ad acquerello, costruito attraverso rapide e trasparenti pennellate, sembra risentire di un moderato gusto espressionistico.

Realizzato intorno al 1940, il tardo Autoritratto di Carlo Wostry è senz’altro uno dei più interessanti della raccolta. Il sapiente uso della posizione frontale e di un’illuminazione drammaticamente violenta, pone in risalto impietosamente i segni della maturità e dà luogo a un’immagine dalla forte carica espressiva, molto lontana dallo stile giovanile di Wostry, personaggio chiave della vita artistica triestina tra Ottocento e Novecento, promotore di iniziative artistiche e scrittore.

Risalgono allo stesso anno (1940) anche gli autoritratti di alcune figure minori del panorama artistico triestino: Albino Brandolin, del quale si trova esposto un autoritratto a matita dal taglio compositivo tradizionale e Giuseppe Moro, il cui autoritratto con sciarpa e colbacco, connotato da una buona qualità pittorica, ha anche la peculiarità dell’inusitato formato quadrato. Sempre ai primi anni del quarto decennio del ‘900, dovrebbe poi risalire l’opera di una delle quattro pittrici presenti nella raccolta, il delicato Autoritratto a matite colorate di Maddalena Springer, allieva e compagna di Gino Parin.

Di maggiore originalità e spessore psicologico è l’Autoritratto di Tullio Silvestri, eseguito a sua volta attorno al 1940, quando l’artista, la cui fama è legata all’amicizia con Joyce, aveva sessant’anni. Il ritratto del pittore veneziano, vibrante di luce e di colore, nel rivolgere volto e sguardo verso l’osservatore, svela un’espressione indagatrice e un po’ inquietante.

E’ del 1943, un singolare e raro Autoritratto di  Augusto ÄŒernigoj connotato da quel sintetismo e da quella rapidità d’esecuzione, che gli apriranno la strada verso una semplificazione sempre più decisa del dato reale fino al punto d’arrivo dell’astrazione. In questi anni il critico Agnoldomenico Pica definisce la pittura di questo importante e rivoluzionario pittore, “tutta nervi e immediatezza”, e richiama a confronto l’esecuzione svelta di De Pisis.

All’anno successivo, il 1944, appartengono tre autoritratti ancora fortemente legati al classicismo novecentista. Se gli autoritratti di Cesare Cuccoli e di Ferdinando Noulian (quest’ultimo più libero nell’esecuzione) appaiono tradizionalmente impostati, sia dal punto di vista della composizione che relativamente all’interpretazione del soggetto, senz’altro l’Autoritratto con Mirella di Carlo Sbisà risalta per l’intensità espressiva dei due soggetti e per una soluzione compositiva originale che mette in primissimo piano il volto del pittore, lasciando solo intravedere quello della giovane moglie.

La «difficile semplicità», individuata da Silvio Benco nella pittura di Gianni Brumatti, si riscontra anche nel suo Autoritratto (1949), in particolare per la scarnificata gamma cromatica, basata sul delicato accordo di tinte luminose, la densità degli impasti e la pennellata sofferta di morandiana memoria, che ne accentuano il carattere intimistico.

Nel dopoguerra il conflitto fra realisti e astrattisti si manifesta anche nel genere dell’autoritratto, che comunque non si esaurisce e dimostra la sua perenne vitalità.

Al primo filone appartengono tre autoritratti del 1950: quello, piuttosto convenzionale, di Tiziano Perizi, quello della stravagante pittrice Pedra Zandegiacomo, originale per taglio compositivo, impostato sulla diagonale, e quello del suo insegnante Riccardo Bastianutto, già precedentemente incontrato tra i “ritratti professionali”.

Riflessi del neo-cubismo e dell’Informale si colgono, invece, negli autoritratti di due protagonisti del secondo ‘900 a Trieste: l’ autoritratto (1955) di Nino Perizi,  stilisticamente affine ai dipinti coevi Uomo con gabbie e Omaggio a Garcia Lorca, rimanda alla fase sintetica della produzione di Picasso e Braque soprattutto nella geometrizzazione dei volumi facciali. L’Autoritratto di Romeo Daneo, dipinto nel 1959, spicca sugli altri per la singolarità della tecnica esecutiva: le piatte campiture di colore sono infatti accostate come in una tarsia di superfici colorate, delicatamente animate da un effetto marmorizzato.

Livio Rosignano è rappresentato da un Autoritratto del 1961, in cui l'espressione è attenta, come si rileva dalla fronte lievemente aggrottata e dalla tensione che si legge nello sguardo. Cromia e composizione appaiono quanto mai sobrie e lineari. Non si riscontrano qui la passione e l'irruenza di certi accenti espressionistici caratterizzanti il linguaggio giovanile di Rosignano.

Tra le opere che spiccano maggiormente nel nucleo di pezzi provenienti dalla famiglia Hausbrandt, c’è l’autoritratto di Leonor Fini, (Le chapeau rouge) del 1968, giunto al museo in una seconda fase, come donazione degli eredi in memoria di Lylla Hausbrandt, moglie di Roberto, scomparsa nel 2003.

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