Giovedì 18 gennaio, riprende il corso di storia dell’arte con una conferenza su Piero Maruss

Il corso di storia dell’arte organizzato anche quest’anno dal Museo Revoltella riprende dopo la pausa natalizia con una lezione straordinaria, fissata per giovedì 18 gennaio 2007 alle ore 16, a cura di Maria Masau Dan, direttrice del Museo e di Nicoletta Colombo, curatrice della mostra di Piero Marussig assieme a Claudia Gianferrari ed Elena Pontiggia.
Il tema Marussig è stato scelto, infatti, perchè si inserisce pienamente nel programma proposto quest’anno dalla docente titolare del corso, prof. Maria Caterina Oriani, cioè i movimenti d’avanguardia del primo ‘900 e la nascita dell’arte contemporanea.
Maria Masau Dan parlerà degli anni triestini di Marussig, le prime opere, i viaggi, gli amici, le mostre; Nicoletta Colombo (di cui si riporta qui un estratto del saggio pubblicato in catalogo) si soffermerà invece sulla seconda parte della carriera dell’artista, che ha come sfondo la Milano degli anni Venti e Trenta, e inizia nella cerchia di Margherita Sarfatti.
E’prevista anche la visita della mostra.

Piero Marussig e la critica
Estratto del testo di Nicoletta Colombo in Catalogo Generale

L’esame della storia critica di Piero Marussig comporta l’inevitabile constatazione della difficoltà di lettura della sua opera da parte degli addetti ai lavori del tempo, dovuta a quella formazione mitteleuropea d’avanguardia che lo rendeva, in un certo senso, straniero in patria. La situazione italiana dei due primi decenni del XX secolo si presentava infatti divaricata a forbice tra la tradizione ottocentesca che allungava i suoi esiti fino al 1920 e oltre, e l’esperienza futurista che dichiarava la morte di ogni tradizione; in tali contesti, con l’aggiunta del nascente clima di “Ritorno all’ordine”, lo stile Sezession o postimpressionista proposto da un pennello italiano assumeva evidentemente una valenza artistica linguisticamente estranea. L’incipit di una specifica attenzione da parte della critica all’opera del triestino è segnato dalla sua prima mostra personale, che si svolge tra ottobre e novembre del 1919 alla Galleria Vinciana di Milano e che delinea un momento di svolta nell’attività così come nella vita dell’artista. Per l’occasione esce un anonimo articolo sul giornale milanese “Perseveranza”, che dà rilievo all’ispirazione all’impressionismo francese filtrato attraverso i secessionisti tedeschi, con qualche reminescenza cubista che indulge in uno schematismo forzato, in una freddezza di toni, al di sopra di cui è evidente la mano sicura, la sapienza tecnica, la padronanza dei mezzi pittorici.
Bozzi, nel “Secolo”, rivela che “par essere questa la prima mostra individuale postimpressionista della nostra città dove la stessa opera dell’impressionismo francese è conosciuta da non molti e piuttosto frammentariamente”, agganciando quindi al postimpressionismo il segno dell’artista, che racchiude tuttavia aspetti derivanti dall’arte giapponese, per la tavolozza semplificata, per la stesura mat e à plat del colore, secondo un decorativismo da “tapisserie”, definizione con cui il critico affida il tono generale della valutazione all’incertezza tra l’apprezzamento verso un nuovo artista e la reticenza nei confronti di estetismi programmatici filoespressionisti, quelli che a sua detta sconvolgono i piani, le linee e alterano i comuni concetti della composizione tradizionalmente concepita. Molto positiva per contro la recensione di Raffaello Giolli, critico aperto a una visione europea e per nulla omologata al misoneismo che affligge gran parte dei commentatori d’arte italiani del periodo, “fedele battitore delle vie maestre dell’arte italiana, crociano rabdomante alla ricerca della Poesia”, come lo definisce Cesare de Seta nel 1972; ricordando la freschezza dei quadri di Marussig osservati alla Quadriennale presso la Promotrice di Torino, chiusasi poco prima dell’inaugurazione della sua personale alla Vinciana, Giolli evidenzia la delicata e acuta sensibilità con cui l’artista riassume “le esperienze pittoriche, impressionistiche e postimpressionistiche. Ma quel che conta è che sono ben concentrate in uno spirito conseguente, in uno sviluppo coerente e unitario”; Giolli accompagna l’articolo con due immagini che riproducono All’aria aperta, di palese gusto Jugend, e una Natura morta che onora quello scivolamento e distorsione dei piani, che, a dirla con Bozzi, l’articolista sopra menzionato, non sono che sintomi pericolosi di forzature avvilenti.
Margherita Sarfatti ed Enrico Somarè sono da considerare, insieme a Giolli, i critici che tra i primi e con assiduità, annotano, nel bene e talvolta nel male, l’opera del triestino a partire dal 1920, anno in cui appaiono le recensioni, ancora moderatamente scarse di delineazione, in occasione della mostra di apertura della milanese Galleria Arte o degli Ipogei, avamposto propositivo per quei giovani che si affermeranno negli immediati anni successivi.
La partecipazione alla XIII Biennale di Venezia del 1922 è sottolineata da Somarè con una valutazione che esce sulla rivista di cui è ideatore e direttore, “L’Esame”; il critico, molto incline all’arte ottocentesca quanto alle espressioni nuove che non sconfinino negli “ismi”, nota con soddisfazione la fuoriuscita del triestino dalle acrobazie decorative e dalle compiacenze dell’arabesco per riportarsi alla realtà dei soggetti e alla loro consistenza oggettiva, lodando in Ritratto di signora la concretezza del nuovo orientamento accompagnata da una maggiore distensione e addolcimento del colore, al di sotto del quale permangono tuttavia segnali posticci di espedienti tecnici del passato. Il Ritratto di signora viene ugualmente menzionato come buona prova da Carrà su “Il Convegno”, quale risultato di una “cultura pittorica non comune, sebbene di raggio limitato”, limite che anche il pittore-critico individua nel ricorso al cliché decorativo. Pare quindi evidente che, in un anno cruciale di ricerca per gli artisti qual è il 1920, data che avvia la crisi avanguardista postbellica alla ricerca dell’ordine, il naturale passaggio di Marussig dallo stile giovanile venga sospinto di rincalzo da una critica che non solo lo incoraggia, ma si potrebbe dire, lo preme verso gli esiti di generale orientamento ricostruttivo post-1920. Infatti, nel novembre del 1922, in occasione della mostra collettiva alla Bottega di Poesia, dove il nostro è presente con alcuni colleghi del nascente gruppo dei sette pittori del “Novecento”, in gestazione proprio in quei mesi, Somarè confessa di rilevare l’assenza dei difetti evidenziati in precedenza nella pittura del triestino; a lui fa eco la Sarfatti, che pone in evidenza l’abbandono dello stile Jugend bavarese e dell’ à plat in funzione della scoperta della “rotonda delicatezza plastica, la sensibilità di piani e di penombre, senza cui non esiste la corposità e la luce”, accenni a quei punti fondamentali dell’estetica sarfattiana che sarebbero divenuti i Comandamenti di “Novecento”. Osservazioni riconfermate dalla stessa Sarfatti, che nella presentazione dei “Sei pittori del ’900” alla XIV Biennale di Venezia del 1924 (sei perché il settimo, Ubaldo Oppi, era fuoriuscito per allestire una presenza personale con il sostegno di Ugo Ojetti), a proposito di Marussig avvalora il suo abbandono delle tinte piatte e dello stile Jugend a favore della “rotonda corposità e la sensibilità dei piani e delle penombre, caratteristiche tipicamente italiane”. Passaggio stilistico non scevro da critiche, dovute in gran parte a una scarsa dimestichezza dell’artista a trattare le sintesi plastiche e la tavolozza ombreggiata, difficoltà segnalate da Roberto Papini che vede nelle sue forme rigonfiamenti molli come vesciche, ma anche cambiamento meritorio di alcune lodi, tra cui quelle di Ugo Nebbia, che ne incensa la schiettezza e la sensibilità pittorica, il timbro esclusivo e personale che si differenzia dallo stile forzato dei compagni.
Esce nel ’25 il piccolo volume Segni, colori e luci di Margherita Sarfatti, con un capitolo titolato “Il gruppo del ’900”, in cui si parla di Marussig riportando la recensione scritta nel novembre ’22 per la collettiva di Bottega di Poesia13. Come giustamente osservato da Elena Pontiggia nel regesto biografico qui pubblicato, la Sarfatti insiste nel ripetere il concetto dell’abbandono, da parte del triestino, delle radici secessioniste, ma non si perita di affrontare una analisi approfondita della sua trasformazione, appuntando invece maggiore attenzione su Sironi e Funi, che con Marussig del resto, avevano costituito la parte stabile e a lei di maggior sostegno tra le vicende instabili di “Novecento”.
Nel ’26 la I Mostra del Novecento Italiano alla Permanente dà vita a molte recensioni, nel complesso meno ostili a Marussig che negli anni precedenti, anche se il solito riaffiorare della derivazione monacense presta il fianco a commenti in positivo o in negativo: Benso Becca, ad esempio, ne deduce un motivo per attribuirgli la necessaria delicatezza che vieta di cadere nella pesante plasticità degli altri colleghi del gruppo14, mentre Cipriano Efisio Oppo, sempre poco generoso con Sarfatti e compagni, tanto da sottotitolare con il termine Smarrimento il suo intervento relativo alla mostra del ’26, dà un colpo alla botte e uno al cerchio, delineando l’evidenza dei passati secessionisti che mal si celano sotto le formule novecentiste e concedendo, malgrado tutto, a Marussig, il merito dell’affermazione di un supposto anti-neoaccademismo. [Ö]
Nel marzo del ’36 l’amico e collega Achille Funi scrive un articolo dal titolo Piero Marussig, che appare nella rubrica “Profili” del “Corriere Padano”, quotidiano di Ferrara, patria di Funi: da una iniziale adorazione per Cézanne, il profilo del collega si delinea per la severità quasi religiosa dell’impegno artistico, precisato nello scrupolo da disegnatore impeccabile, nell’esattezza dei rapporti che mantengono una innata delicatezza, un carattere riflessivo. Il ferrarese esprime il rammarico che il pubblico non abbia considerato l’amico nella sua dote naturale di insegnante e formatore di carattere, adeguata cioè a istruire i giovani alla disciplina e alla originale preparazione all’arte.
L’anno seguente, il 13 ottobre, Marussig muore a Pavia; molteplici gli articoli commemorativi che ne ripercorrono la carriera e le metamorfosi stilistiche, tutti comunque interessati a evidenziarne il mondo poetico e la dirittura morale. Nel 1938 la XXI Biennale di Venezia gli dedica una sala, con presenza di trentaquattro opere, introdotte in catalogo da Somarè, suo ventennale estimatore; l’artista è per la prima volta descritto nella sua personalità “drammatica, che incarnava l’essere dell’artista moderno, tormentato dall’idea dell’arte”. Attraverso gli impressionisti Manet e Degas, i postimpressionisti Van Gogh e Cézanne e il fascino esercitato sulla sua giovane esperienza da Gauguin e Matisse, “la sua intuizione procedeva nel senso tutto lirico e moderno della figura, del paesaggio e dell’oggetto concepiti come apparizioni e visti come presenze plastiche”. [Ö]

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