La civiltà della tavola nella pittura giuliana

ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA                                  COMUNE DI TRIESTE

Delegazione di Trieste                                                               Civico Museo Revoltella

La civiltà della tavola nella pittura giuliana
A cura di Maria Masau Dan, Auditorium del Museo Revoltella, venerdì 23 marzo 2007, ore 19

La rappresentazione artistica del cibo, come si sa, è antichissima e lo dimostrano le preziose testimonianze delle pitture pompeiane ma anche i mosaici paleocristiani di Aquileia dove compaiono prodotti della terra e animali di cui l’uomo fin da quelle epoche usava alimentarsi. Dunque quella che un po’impropriamente si chiama “natura morta” – per distinguerla dalle immagini in cui è presente la figura umana – era un genere artistico già praticato nell’antica Roma, con risultati, tra l’altro, di sorprendente modernità. Dimenticato nei secoli successivi, quando il cibo compare nella pittura solo marginalmente e sempre nell’ambito di rappresentazioni religiose, riacquista importanza tra Rinascimento e Barocco, per merito soprattutto del celebre “Canestro di frutta” dipinto da Caravaggio, che ai detrattori della natura morta – ritenuta un genere minore rispetto alla “pittura di Dio” o al ritratto, rispondeva: " Tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure!". Le nature morte, sempre più complesse e ricercate, fatte di prodotti naturali ma anche di cibi cotti e dolci elaboratissimi, e, soprattutto, dipinte con una tecnica così perfetta da fare sembrare le cose “più vere del vero”, si diffondono rapidamente nelle Fiandre dove incontrano il gusto collezionistico, e la mentalità laica, della nuova borghesia mercantile. I pittori fiamminghi ampliano ben presto il loro mercato anche all’Italia settentrionale e molti di loro si stabiliscono a Genova e a Venezia. Fino all’800, però, questa influenza non raggiunge l’area giuliana dove i primi dipinti di fiori e animali definibili come “nature morte” si rintracciano nell’opera di Giuseppe Bernardino Bison e di Gatteri padre solo attorno al 1830.
Si dovrà arrivare alla mitica figura di Francesco Malacrea e alla metà del secolo per trovare un pittore specializzato nelle nature morte alla fiamminga, che avranno subito uno straordinario successo. Stravagante e buon conoscitore dei gusti della classe mercantile emergente, dalla sua postazione sotto il pronao della Borsa – dove teneva la sua famosa “galleria all’aperto” – riuscì a piazzare, in una trentina d’anni d’attività, centinaia e centinaia di dipinti traboccanti di frutta e cacciagione. Una volta disse a un cliente: “Sappia e lo tenga a mente, che per fare i fiori viene prima Dio e poi Malacrea, per le frutta prima Malacrea e poi Dio…”.  Ogni appartamento borghese di Trieste ostentava nella sala da pranzo almeno una delle sue nature morte.
Sulla sua scia si può dire che una trentina d’anni dopo, ormai superata la boa del secolo, si collochi la figura non meno singolare di Bruno Croatto, che non era solo un pittore di nature morte, bensì un valente ritrattista, ma lasciò una serie di composizioni di oggetti e frutta caratterizzate da un’atmosfera davvero magica.
La natura morta fu un genere praticato da molti pittori triestini dell’Otto e Novecento, da Veruda a Sambo, da Marchig a Bergagna, da Cernigoj a Rosignano, anche se nessuno vi si dedicò esclusivamente: è interessante, però, osservare come anche attraverso questo particolare filone di ricerca si possa seguire l’evoluzione del tempo e del gusto nell’arco di un secolo.
Di “Civiltà della tavola nella pittura giuliana”, venerdì 23 marzo alle ore 19, nell’auditorium del Museo Revoltella, parlerà – invitata dalla Delegazione del Friuli-Venezia Giulia dell’Accademia Italiana della Cucina –  Maria Masau Dan, direttrice del museo, che si soffermerà anche sul rapporto tra artisti e cucina attraverso le testimonianze storiche e letterarie.

 

Nella foto: Francesco Malacrea (1812-1886), "Natura morta", Civico Museo Revoltella, Trieste

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