Mascherini e la scultura ….: l’ introduzione del curatore

A cura di F. Fergonzi e A. Del Puppo

Dal 2007-07-28 al 2007-08-23

Marcello Mascherini nel centenario della nascita. Ragioni di una mostra

 

Flavio Fergonzi

 

 

Lo stato degli studi

L’esposizione per il centenario della nascita del più importante scultore (e certamente il più popolare artista) triestino del Novecento voluta dal Museo Revoltella ha implicato una riflessione preliminare. Era evidente che il primo compito della mostra doveva essere quello di ricomporre, per un pubblico di triestini e di visitatori giunti da fuori, un quadro il più possibile completo dell’attività scultorea di Mascherini, in una chiave, come si fa per le retrospettive del centenario, che privilegiasse una calibrata ricostruzione storica a un taglio più angolatamente militante. Ma c’era, parimenti, la volontà di tentare una operazione che non si sovrapponesse in modo inerte allo stato degli studi sull’artista. Risorse economiche ed energie umane dovevano convergere su un progetto capace di aprire su qualche significativa novità. Il bilancio di quanto era stato fatto e di quanto rimaneva da fare è perciò stato, nel dibattito tra committente e curatori, un punto di partenza essenziale.

Di Mascherini esistono un monumentale catalogo ragionato dell’opera scultorea, a opera di Alfonso Panzetta, uscito nel 1998; il catalogo di una recente mostra retrospettiva, curata nel 2004 a Matera da Giuseppe Appella, dai ricchi apparati filologici; una ancor più recente (2005) biografia di taglio giornalistico, scritta da Roberto Curci, densa di notizie e intessuta di trame con il mondo culturale e sociale triestino; un accurato affondo di storia istituzionale triestina che il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, per la cura di Massimo De Grassi, ha dedicato all’artista per il centenario della nascita, nel 2006. Nello stesso 2006 si sono aperte esposizioni che hanno indagato aspetti più particolari della sua attività: le realizzazioni plastiche per i grandi transatlantici, in una mostra a Roma, a San Michele a Ripa; il disegno, in una mostra nella sede della Regione Friuli-Venezia Giulia di Trieste; la stagione finale dei fiori scultorei, celebrata in una monografica alla Polveriera Napoleonica di Palmanova; persino l’attività di Mascherini scultore di gioielli, in una piccola mostra aperta a Trieste presso l’Associazione Amici dei Musei. Per la cura di Massimo De Sabbata è in via di pubblicazione un’ampia antologia dell’epistolario dell’artista. Chi voglia indagare la storia di una scultura, o accedere a un raro catalogo d’epoca, o fare un affondo sulla ricezione critica, ha a disposizione l’Archivio Marcello Mascherini di Azzano Decimo, dove gli eredi dell’artista hanno ordinato una cospicua  messe di materiali, costantemente aggiornata.

Di pochi scultori, insomma, che operarono nella ricca stagione italiana dei quattro o cinque decenni a cavallo della metà del secolo (l’ultima stagione veramente gloriosa a livello internazionale, per riscontri critici e di mercato: Marino Marini e Giacomo Manzù, Pericle Fazzini e Mirko Basaldella, Luciano Minguzzi ed Emilio Greco), catalogo e bibliografia si fondano su dati così sicuri. La mostra che il Revoltella ha organizzato per il centenario non poteva avere il significato che spesso hanno questi eventi: quando, cioè, le celebrazioni servono per iniziare un serio lavoro di base, reperire bibliografia storica, identificare il maggior numero possibile di opere andate alle esposizioni per stabilire sicuri terminus ante quos, offrendo così un affidabile strumento per il futuro degli studi. Questi strumenti, come si è visto, c’erano già.

Si è provato, allora, a ragionare intorno a Mascherini allargando il fuoco a temi di scultura novecentesca. Nella presente mostra l’opera mascheriniana è stata confrontata con quella di scultori locali, italiani e internazionali: entrano in scena, accanto a lui, Rambelli e Wildt, Martini e Marino Marini, Minguzzi e Fazzini, Klinger e Mestrovic, Despiau e Zadkine, Chadwick e Armitage. Questo, in sostanza, per due motivi. Il primo è più generale. Quando ci si interroga su un artista l’approccio monografico sembra inevitabile (e Mascherini regge benissimo una monografica, anche ampia). Ma solo una mostra di contesto, che provi ad affrontare la questione dei riferimenti, del rapporto di dare e avere con altri scultori, ci restituisce la piena specificità delle sue scelte stilistiche. Il secondo motivo tocca da vicino l’oggetto stesso di questa mostra. Tracciare una storia della scultura italiana del Novecento, magari nelle sue relazioni con quella internazionale, basata su una severa ricostruzione storica dei fatti ma condotta su un filo che voglia essere linguistico, che parta dal contenuto formale, dai problemi plastici messi in campo dagli artisti è difficile. Ma questa particolare occasione, stante proprio la fondatezza degli strumenti filologici disponibili sull’artista, e grazie anche alla recente disponibilità di studi monografici o di sintesi su altri scultori italiani e stranieri, ci è sembrata adatta per un primo tentativo.

Così giovani studiosi, formatisi (o, spesso, ancora in formazione) nelle università di Trieste e di Udine sono stati messi alla prova su temi diversi tra loro per natura e taglio problematico. Hanno affrontato il rapporto tra Mascherini e la tradizione locale; hanno tentato di spiegare mode visive, e più in generale, culturali (decorativismi, arcaismi o classicismi), che hanno caratterizzato una stagione attraverso la quale Mascherini è transitato; talvolta è stato un genere in cui l’artista eccelleva, quello del bronzetto, a stimolare una verifica orizzontale negli anni Trenta e Quaranta; altre volte uno stilismo particolare (gli allungamenti degli anni Cinquanta; le tormentate superfici degli anni Sessanta) è stato interrogato per capirne le fonti e ricostruirne la fortuna critica che lo ha accompagnato. Ovviamente ragioni pratiche (l’inaccessibilità di alcune opere o il costo del loro trasporto) hanno qualche volta reso impossibile il confronto diretto, in mostra, degli originali: il catalogo lo documenta sempre attraverso l’ccostamento tra le fotografie

La scelta delle opere di Mascherini non è stata condotta ricercando semplicemente le più belle e le più significative, ma anche quelle che sembrarono utili nella citata prospettiva di confronto con le vicende della scultura italiana ed europea. Un occhio particolare è stato riservato a sculture al loro tempo celebri, che hanno avuto l’onore di importanti acquisti e sono ora in prestigiose collocazioni, anche lontane. Farà piacere ai visitatori triestini veder ritornare temporaneamente nella loro città, dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la Primavera e La prima rondine, due cruciali bronzetti acquistati alle Biennali di Venezia del 1936 e del 1938; dai Musei Civici di Firenze la Venere marina che vinse nel 1942 il Premio Donatello; dai Musei Reali di Anversa un Faunetto che valse a Mascherini il Gran Premio per uno scultore italiano alla Biennale di Venezia del 1950; dalla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino la Figura-frammento della Biennale di San Paolo del Brasile del 1953; ancora da Anversa lo splendido Fauno che ebbe una intensa storia espositiva internazionale, da Venezia a New York a Tokio, e venne acquistato nel 1961 dal più sperimentale museo europeo di scultura di quegli anni, il Museo Middelheim.

L’interruzione al 1968-69, con la coppia Morte di SaffoCatarsi, ha voluto fermare il racconto in concomitanza con l’ultima stagione di sculture di figura: al drammatico epilogo dei Fiori (1972-1974) era stata dedicata, come si è detto, la recente mostra di Palmanova. Il senso di una mostra retrospettiva ci è sembrato anche quello di indagare compiutamente le fasi meno recenti e meno note, inevitabilmente le più trascurate nelle monografiche fin qui dedicate a Mascherini.

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Debiti stilistici, riprese iconografiche

Chi percorra gli ambienti di questa mostra, e ancor più chi legga il catalogo, sarà colpito dalla frequenza con cui, alle sculture di Mascherini, si sono affiancate opere di scultori a lui contemporanei, o di scultori delle generazioni precedenti, nella volontà di sottolineare condivisioni tematiche, prossimità linguistiche, o, in qualche caso, addirittura, una precisa dipendenza iconografica.

Sfogliare, anche in fretta, l’apparato fotografico del catalogo generale curato da Alfonso Panzetta comunica al lettore una sensazione straniante. Mascherini ha uno stile tipicissimo, ma i suoi riferimenti spaziano in molte direzioni; e quando si voglia stringere il discorso sul suo rapporto con i modelli la faccenda si fa complicata, e sfuggente. Questo perché esistono, nella scultura mascheriniana, tipologie e pratiche differenti circa il modo di mettersi in relazione con le sculture degli altri.

Il primo livello, il più ovvio, consiste nell’individuare una costellazione di riferimenti che gli servano da guida negli anni dell’esordio: guardare, per il proprio Seminatore, al Seminatore che Rambelli ha inserito nel monumento ai Caduti di Viareggio; importare cadenze wildtiane per gli estatici ritratti degli anni venti; recuperare rigidità mestrovicciane per l’Autoritratto del 1932 significa, prima di tutto, dare un segnale all’ambiente artistico in cui lavora, espone e cerca di affermarsi. Il segnale è che a Trieste lavora uno scultore che è ben consapevole della rivoluzione antinaturalistica, avanguardista prima e filomuseale poi, che si è compiuta tra anni Dieci e anni Venti, e delle nuove possibilità che questa rivoluzione lascia aperte.

Il secondo livello segna uno stacco decisivo rispetto alla pletora degli scultori suoi coetanei. Lo scultore di stile moderno che si affaccia sugli anni Trenta sa che i linguaggi sono il frutto di una lunga conquista. Per fare una scultura modernamente martiniana non basta imitare Martini, bisogna passare, magari rapidamente, attraverso le tappe che Martini ha percorso. Per questo, tra il 1931 e il 1935, Mascherini guarda così intensamente i bronzetti etruschi o la scultura arcaica, Bourdelle e Despiau: vuole, da questi archetipi imprescindibili, imparare i fondamenti di una nuova grammatica del corpo che andrà, di lì a breve, sciolta in una differente dolcezza. 

Il terzo livello è quello che fa di Mascherini il felice e spregiudicato scultore oggi ammirato. Egli sa che una volta individuata, tra le molte vie possibili della scultura moderna, quella vincente, quest’ultima va portata alle sue coerenti conseguenze.  Si prendano  i nudi femminili degli anni Quaranta modellati avendo bene in testa l’asse Maillol-Renoir-Marino Marini. Non è difficile cogliere i motivi di ordine culturale, o semplicemente strategico, che l’hanno fatta prediligere. Mascherini non si ferma però qui, non fa nudi che soltanto imitino l’aria impersonale e le forme abbondanti di Veneri o Pomone: capisce che il segreto di quelle sculture è nel delicato equilibrio generale dei profili, che quei grandi lavorano (o hanno lavorato) rendendo generiche le forme, attirando l’attenzione sull’autosufficienza dell’opera, sulla sua intrinseca armonia architettonica, e si sono salvati dal rischio del decorativo con una ossessiva attenzione ai valori superficiali. Farà un ragionamento non dissimile negli anni Cinquanta, quando il purismo volumetrico di Zadkine e di Laurens sarà guardato tenendo ben presente la radicale ridiscussione plastica dei lontani anni di fondazione del cubismo; e, negli anni Sessanta, con Moore e con gli inglesi.

Un quarto livello è quello di importare soluzioni dell’arte antica che abbiano in sé un contenuto formale modernista. Dedurre nel 1949, per i rilievi dell’Anello degli Argonauti, soluzioni narrative dalla Colonna Traiana, o impaginative da sculture dell’antica India, o iconografiche da rilievi dell’antico Egitto, o decorative dalla porta di San Zeno a Verona significa guardare alla storia dell’arte come a un infinito bacino di prelievi cui attingere per istintiva consonanza stilistica col proprio lavoro: era una pratica di cui Martini era stato il campione indiscusso e, come per Martini, la fonte era più spesso accostata col tramite della riproduzione fotografica contenuta nei libri che non  attraverso l’originale. La ricognizione condotta, per il catalogo di questa mostra, sulla biblioteca di Mascherini a Sistiana ha dato a questo proposito esiti molto interessanti.

C’è anche un quinto livello, quando Mascherini riprende in modo preciso, al  limite della sovrapponibilità iconografica, opere di altri: lo fa con l’atteggiamento di chi, avendo ormai conquistato una sua lingua, usa queste deduzioni per ampliarne l’arco delle possibilità, o per metterla alla prova. Non ci aspetteremmo, a prima vista, che il gesto del Caino ripeta precisamente quello del Caino di Dupré; che certi Fauni con doppia tibia siano una ripresa letterale di quelli disegnati da Picasso in un numero del 1948 di “Cahiers d’Art”; che la Gazzella nera abbia atteggiamento, proporzioni e intonazione generale di una  Girl di Reginald Butler che si è fatta venire apposta dalla Tate Gallery di Londra per questo confronto. Mascherini sapeva di essere in vantaggio sullo spettatore, e ha condotto un gioco dove allegro opportunismo e sfida personale si intrecciano in modo inestricabile

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