Odinea Pamici. Folie bourgeoise.

A cura di M. Corgnati, S. Zannier, L.Michelli

Dal 2006-09-28 al 2006-10-30

Inaugurata giovedì 28 settembre, la mostra personale di Odinea Pamici intitolata “Folie bourgeoise” resterà aperta nella galleria del quinto piano del Museo Revoltella fino al 30 ottobre.

E’ accompagnata da un catalogo, con testi di Maria Masau Dan, Martina Corgnati, Sabrina Zannier e Nico Stringa.

Per chi desidera approfondire, riportiamo i contributi di M. Masau Dan, M. Corgnati e S. Zannier.
Suggeriamo inoltre di visitare il sito www.odineapamici.it

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Non c’è molta differenza tra le immagini di lussuose, preziose, cucine che ci vengono proposte dalle riviste, in quantità ossessiva da qualche anno a questa parte, e il “modello di cucina” realizzato e firmato da Odinea Pamici, con una felice intuizione, già parecchi anni fa. C’è la stessa atmosfera sospesa, immobile, incontaminata. Le superfici mandano bagliori di luce. Sembrano ambienti destinati alla contemplazione più che all’uso, in cui la vita, con la sua confusione, le scorie, gli odori, non è prevista, non puÚ entrare senza distruggere l’effetto.
La sublime perfezione dei “mobili” di Odinea Pamici è, al contrario, un’esca un po’subdola e irresistibile per attirarci nel territorio del complicato rapporto fra donna e cibo, con tutte le sue implicazioni fisiche, psicologiche, sociali, erotiche, un’ossessione, anch’essa, così presente nel nostro tempo.
Attraverso un lavoro che si evolve, negli anni, all’insegna di una straordinaria coerenza, senza le cadute e senza le sbavature possibili quando il tema rischia di “scottare le dita”, l’artista ci invita a riflettere su una questione maledettamente seria con garbo e delicatezza, con un’inventiva apparentemente inesauribile, ma controllata, con una cura della tecnica e del risultato che lasciano davvero a bocca aperta.
C’è del coraggio, è giusto sottolinearlo, nell’avere scelto la cifra della denuncia e della provocazione per interpretarla con un linguaggio algido e patinato, materiali ricchi e forme ordinate, creando un apparente contrasto e incentrando su questo il senso più profondo dell’operazione. Odinea è artefice di una messa in scena e di una fascinazione di cui siamo consapevoli e complici. Ci piace anche per questo.
La scelta di inserire la mostra della Pamici nel ciclo “Revoltella contemporaneo” è dovuta, perché risponde pienamente ai criteri con cui si è proceduto fino ad ora, invitando artisti che operano in città o in regione con un forte impegno di riflessione e sperimentazione, e con esiti che attirano interesse anche in un ambito più vasto. La Pamici ha ormai un percorso espositivo ricco di eventi importanti e sostenuto da prestigiose gallerie, ma ancora non c’era stata una tappa a Trieste, la sua città. Nello spirito che caratterizza l’azione dell’assessorato alla cultura del Comune, teso a valorizzare le esperienze cittadine più ricche di significato anche nel campo dell’arte, l’attività della Pamici non poteva, dunque, non trovare il giusto spazio. Il Museo Revoltella, che, assieme alle altre attività, intende continuare a svolgere regolarmente la sua azione di promozione dell’arte contemporanea, ha trovato su questo progetto l’appoggio dell’assessore alla cultura Massimo Greco e, attraverso la mostra di Odinea Pamici, e la collaborazione fattiva di critici molto attenti come Martina Corgnati, Sabrina Zannier e Lorenzo Michelli, consolida pertanto questo legame con i protagonisti del fare artistico del tempo che viviamo.

Maria Masau Dan
Direttore del Museo Revoltella

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Questioni di cucina. Questioni di cucito. Questioni, insomma, di donne ! anzi, questioni di Odinea, signora triestina della cucina e del cucito e di molto altro, che da sempre non fa che occuparsi delle stesse cose eppure se ne occupa come nessun altro/a saprebbe o vorrebbe farlo. Scrive l’artista quasi nella homepage del suo sito web

ArrivÚ il mio turno quando l’uomo mi disse che l’arte è cosa da uomo e di tornare a casa e fare la calzetta, tornai appunto a casa e della calzetta feci il mio lavoro e della casa la mia professione. Cominciai a lavorare sull’autentico, nella casa appuntoÖ ,

per Odinea lavorare nella casa significa ripensare agli assiomi più banali e scontati in termini che propongo intanto di definire problematici, provocatori e originali. In Italia infatti molte questioni accese dal femminismo sembrano essere quasi scivolate addosso a quella generazione di mezzo cui l’artista appartiene. Inusitate o troppo precoci per le connazionali più anziane, attive in un’epoca precedente, impegnate con i linguaggi della visualità in se stessi e già fortunate a essere semplicemente ammesse in un territorio operativo riservato fondamentalmente ai soli uomini (non agli uomini soli); superate e obsolete per le scanzonate trentenni di oggi. Eppure ben sappiamo che questioni come queste hanno costituito uno dei cavalli di battaglia e base operativa per le artiste americane degli anni Sessanta e Settanta, che si sono infatti ben rivolte alla casa, per demolirla magari, per rivoltarla come un guanto con i ruoli fissi e imbalsamati che veicola.
E, in casa, la cucina. Martha Rosler si divertiva a nominarne con rabbia e rancore tutti gli utensili e le suppellettili, cercando cosi con l’ausilio della parola più irrigidita di neutralizzarne il magico potere seduttivo, che per millenni ha contribuito a limitare l’esistenza di milioni di donne.
Piuttosto isolata nel nostro paese ma non per questo meno determinata, Odinea riprende l’argomento, facendone un campo perfetto e inesauribile di elaborazione estetica, un luogo della bellezza. Titanica, sensuale e certosina, l’artista, per esempio, fa il suo ingresso nella stanza fatale, solo per scoprirla in realtà un pÚ deludente, un pÚ inferiore alle sue giuste aspettative. Allora la riveste: per esempio in velluto di seta blu notte (Salve o Regina del 1999), per renderla più elegante, oppure in domopack di alluminio, per renderla più asettica (A lunga conservazione, 2000-2001 ñ nell’opera veramente l’operazione è estesa a tutti gli altri interni della casa, così da non lasciare molte vie d’uscita). Non è forse la pulizia un ossessione delle casalinghe ?
Coerentemente col programma che si è data, Odinea riveste tutto, non solo le superfici esposte alla vista ma ogni recesso e anfratto segreto, scaffali, ripostigli, cavità. Il forno, le griglie. Gli oggetti diventano così simulacri immobili e ironici di se stessi, non più funzionali, non più utilizzabili.
In questa cucina non cèè dunque più niente da fare se non guardarsi intorno ed eventualmente toccare un pÚ in giro ñ con attenzione. Si tratta di un ambiente integrale, monocromo, persino paranoico, che non concede più spazio non solo ai ruoli ma ai gesti tradizionali. Eppure il cibo da qualche parte sarà pur finito: nel corpo. Costruendo dei singolari montaggi, non fotomontaggi, di feticci dalle forme femminili e sostanze alimentari, Odinea Pamici letteralmente infarcisce con cibo dall’aspetto rassicurante, come la minestrina, oppure disgustoso come una brodaglia gelatinosa in cui galleggiano pezzi di pollo, body, giarrettiere e altri capi estratti dal repertorio dell’intimo femminile; oppure, nel caso di OhhÖ minestrina piena di grazia (1997) il contenitore ha la forma di una nicchia di quelle che accolgono spesso statue o immagini di Vergini e di sante. Perché anche la Vergine è una donna; perfetta. Formosa, come vuole la dedicazione di molte chiese, più frequenti fra Venezia e Dalmazia.
Insomma il corpo femminile, evocato infallibilmente dalla sua silhouette feticizzata, diventa un imprevisto reliquiario di resti organici, faccende alquanto impure, dove oralità e sessualità si sovrappongono in un conturbante gioco di attrazione / repulsione. C’è da dire che l’artista, schifiltosetta in questo e, da brava italiana, attenta alle apparenze, prende le distanze dal suo stesso intervento, congelandolo in traslucide ed asettiche stampe digitali: inodori, insapori, avulse da qualsiasi tentazione. La fotografia è in effetti il complemento indispensabile per stabilizzare le operazioni dell’artista e trasformarle in icone. Perché Odinea Pamici, infatti, è completamente figlia del suo tempo: il suo progetto non si esaurisce affatto nell’impatto vivo (life) dell’azione ñ di cui pure ha bisogno ñ non si consuma nel rituale della presenza, che tendeva invece ad appagare quelle che l’avevano preceduta sul bellicoso sentiero del femminismo militante, ha bisogno della distanza, del raffreddamento creato dall’imbalsamazione, idealizzante, del vissuto in immagine. Persino le sue bellissime installazioni ed abiti, concepiti apposta per cortocircuitare altre due dimensioni critiche delle arti al femminile, cioè questa volta la cucina e la tradizione del cucito, non ci perdono certo a farsi fotografare; anzi quasi quasi ci guadagnano: in solennità, potere evocativo, ieraticità.
Vestiti, dicevo; sontuosi, ricchissimi, preparati per esempio con un tessuto bianco in cui si riconoscono i disegni e la consistenza damascata di tovaglie, essi sono concepiti per avvolgere spose-altari sulle quali si consumano pasti speciali con coperti di cera vergine.
Operazioni, potremmo dire, al limite del cannibalismo che portano in rotta di collisione l’aspettativa di bellezza associata al femminile, i piaceri specialmente facili da immaginare del sesso e della tavola, una certa impertinenza personale e, last but not least, gli antichi ruoli della donna, cioè quei tradizionali, onnipresenti confini che da molti millenni recintano e limitano la vita e l’intraprendenza delle brave ragazze come Odinea.
In Italia, lo accennavo prima, non sono state molte a occuparsi di questo, cioè a prendersi di petto come problematici soggetti di un ritratto che è anche sociale. L’artista triestina ha cominciato a farlo in tempi non sospetti, a partire da quei distratti e iperbolici anni Ottanta quando le cose che sembravano contare erano ben altre; elaborando uno stile originale, inconfondibile e, oltretutto, mantenendo un proprio, molto nordico, riserbo da signora, spezzato perÚ, irresistibilmente, da accoppiamenti non proprio giudiziosi: come quello fra coroncine kitsch che si materializzano all’improvviso non su deliziose testine di principesse ma su cavolfiori o pomodori; fra pesciolini e biancheria intima; fra polipi che, memori forse di uno dei capolavori di Hokusai, si arrampicano fiduciosi su gambette rivestite di pizzo.
Spezzato, insomma, dalla voglia di sorprenderci e di sorprendere se stessa. Oddio ! che noia irresistibile la vita di una signora.
Martina Corgnati

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Ironia e lirismo, corpo-mente-anima, cera e broccato, cavoli e carote, brodo e pastina, polpi e pizzi: sono gli ingredienti che Odinea Pamici pizzica da diversi serbatoi del sapere, del fare e del sentire. Li afferra, li impasta e li mescola, per farli riaffiorare mutati, alterati e impreziositi, entro scenari in cui la dimensione del èfare’, attinta a piene mani dall’universo domestico, appare straniante e a tratti sinistra. Ad opera di quel èsapere’ e di quel èsentire’ che l’artista ha pizzicato dal serbatoio della cultura e da quello dell’esistenza quotidiana, collegati tra loro secondo il principio dei vasi comunicanti. Sin dai suoi primi lavori Odinea ha infatti capito che l’arte è dentro la vita e che tramite la vita puÚ raccontare la propria arte. E’ riuscita a farlo capire anche a noi, invitandoci a un dialogo aperto con le sue opere, a un convivio di emozioni e sensazioni epidermiche. Capaci di farci sprofondare, dall’accattivante superficie di ogni lavoro, verso la profondità di una riflessione il cui trampolino di lancio è rappresentato dall’ironia e dal divertissement. Lo ha fatto con il tocco magico di una fata-fattucchiera e con la sapienza di uno psicologo, consapevole che il sapere capace di radicarsi nel patrimonio culturale del singolo e della collettività è quello che passa attraverso la dimensione del gioco. Un gioco colto, nel caso di Odinea, che chiama in causa una delle più serie e necessarie capacità umane: rimettersi continuamente in gioco, che significa innanzitutto aprirsi all’altro da sé e alle infinite sfaccettature del sé. Odinea lo fa con il protagonismo di un gesto femmineo, per ri-trattare la propria identità, virata sul fronte collettivo, tanto da mettere in scena, di lavoro in lavoro, l’immagine-emblema della donna contemporanea. Una donna che afferma il suo pensare e il suo sentire attraverso l’esibizione della propria femminilità. Quella legata alla sfera domestica, dove affetta pane e cetrioli, grattugia carote, ricopre i cibi con il domopack e dalle sue agili dita escono tortellini, torte e lunghi abiti nuziali. Con quelle stesse mani la donna di cui ci parla Odinea piega e riordina slip, culotte, reggicalze, reggiseno, gu’pière, sottovesti.
Come fanno tutte, o quasi. Con la differenza che dalla mente e dalle mani dell’artista quei cibi e quegli indumenti, entrambi tendenziosamente ammiccanti alla sensualità e al corpo, fuoriescono sotto nuove spoglie. Svincolate dall’uso e dalla loro originaria funzione, per abitare scenari surreali, dove pane, cetrioli e carote sono fissati sotto uno strato di cera sul tavolo della sua Cucina triestina. Quella cucina che Odinea ha anche ricostruito in scala 1:1, ha ricoperto di broccato bianco, e sulla quale ha appoggiato gli oggetti di tutti i giorni: il cesto di frutta, il pacchetto di sigarette, il block notes per la lista della spesa, il frullatore, i libri… Anche loro di cera, anche loro intoccabili perché quell’immagine è la Domenica. Il giorno in cui non si lavora e la cucina si tramuta in altare su cui adorare i ripetuti gesti compiuti durante il corso della settimana.
Dalla cera e dal broccato poi l’artista è passata al domopack, con la serie fotografica A lunga conservazione. Non lo ha usato per avvolgere cibi da riporre nel frigorifero. Dalle sue mani la pellicola d’alluminio si è srotolata per attraversare tutta la casa triestina. L’ha stesa, come un sottile ma resistente lenzuolo metallico, sulle mobilie della stanza da bagno, dell’ingresso, della camera, della salaÖQuel lavoro rappresenta il punto interrogativo di un preciso aspetto della poetica di Odinea Pamici: preservare l’esistente, ma salvandolo da uno sguardo ordinario, attraverso la pellicola dell’immaginazione. Quella che concede ad ogni oggetto, osservato e vissuto, la possibilità d’incarnarsi in altro da sé.
Dal fare femmineo dell’artista sono poi nate delle ironiche iperboli, a partire da un cibo ñ il tortellino ñ che Odinea ha elevato attraverso il principio dell’’elogio’ messo in scena già nel 1996 con l’immagine della gallina. Un principio che già allora avevo paragonato all’Elogio della mosca scritto dal sofista Luciano di Samosata (120-180 d.C.), fondato sull’ironia che scaturisce dallo sguainamento delle cose che più si danno per scontate.
Il tortellino è un oggetto prezioso: costruito come un fragile ricamo per contenere la carne (sostanza simbolica della vita, della crescita e del benessere), si erge a emblema di tutti i gesti, di tutto il fare, il pensare e l’amare capace di unire la bellezza e la bontà. La bontà del gusto e del gustare, con la bocca ma prima ancora con la pelle e con gli occhi. Questo è il messaggio che l’artista reitera all’ennesima potenza nel “tortellino-poltrona”: iperbole catapultata dal piatto del convivio al salotto del dialogo e dell’ascolto.
Ricordo di essermi seduta, su quell’iperbole, che troneggiava nella casa-studio milanese di Odinea. Di essere sprofondata in quella mollezza carezzevole, con gli occhi rivolti alle gigantografie appese alle pareti. Non c’era soluzione di continuità tra quella poltrona-tortellino e le immagini della serie Umore Acqueo, in cui gli oggetti vestimentari destinati al corpo femminile, che contengono brodi di carne, vegetali e pastine, strizzano l’occhio al connubio cibo-sesso nella commistione di umori, sapori, liquidi organici e liquidi culinari.
Non c’era soluzione di continuità tra la poltrona-tortellino e le immagini fotografiche esposte alle pareti. Il pensiero e i gesti dell’artista fluivano dal pavimento ai muri della casa-studio milanese, così come accade sempre tra tutte le sue opere, in tutte le sue mostre. Eppure, ogni volta, innanzi ad ogni nuovo lavoro e all’interno di ogni esposizione, le attese vengono in parte tradite. Ogni volta Odinea ci sorprende. Sappiamo quali sono gli ingredienti che pizzica dai vari serbatoi del sapere, del fare e del sentire, ma non possiamo mai essere certi della dose che preleverà, da quei serbatoi; e tanto meno possiamo immaginare il ècome’ e il èdove’ li mescolerà e trasformerà. Ogni volta la sua mente e le sue mani da “prestigiatore”, votato alla sorpresa riposta nei cassetti nascosti della cultura e della vita, imbastiscono nuovi sentieri di sensorialità ed emozione. Da quei sentieri nascono le grandi vie abitate – brulicanti d’oggetti e immagini stra-ordinarie – che le sue opere riescono a elevare sopra il terreno dell’esistenza individuale e collettiva.
Non c’è soluzione di continuità tra i lavori di Odinea Pamici, perché nascono tutti dagli stessi gesti e dal medesimo pensiero, entrambi punzecchiati dalla propensione all’ironia, a quell’atteggiamento capace di prendere le distanze dalla vita, dai gesti e dai pensieri quotidiani. Ma solo per un attimo, giusto il tempo di svuotarli dall’ossessione della routine, della banalità e del solipsismo, per poi catapultarli sull’altare dell’imprevisto, della stra-ordinarietà, dell’assurdo venato di divertissement goduto a pieni polmoni dalla platea della collettività. Una platea che respira quest’atmosfera anche innanzi all’installazione, al video e alle fotografie di Pranzo di nozze. Un vero e proprio racconto, fatto di sospensioni e di affondi, di trame e cuciture capaci di tessere un’unica grande evocazione simbolica e sensoriale tra l’abito nuziale e il convivio. Con tanto di tovaglia candida e immacolata, che veste all’unisono il corpo della sposa e il “tavolo”, abitato da piatti, bicchieri e posate quali aggettanti ricami di cera.
Chi è la sposa? Chi sono gli inviatati? L’abito nuziale, tramutato in tavolo del convivio, ci consegna la stessa risposta contenuta in La principessa del cavolo, dove l’ortaggio in cera, elogiato alla stregua della gallina e del tortellino, porta una piccola ma preziosa coroncina di perle. La sposa è l’artista, la sposa è tutte le donne. Tra gli invitati al convivio c’è ancora l’artista, ci sono tutte le donne e anche gli uomini. La sposa e gli invitati siamo tutti noi, insieme a Odinea Pamici. Con lei siamo stati chiamati a partecipare allo stesso “banchetto”, da assaporare con gli occhi, la mente, il corpo. Un “banchetto”, quello preparato dall’artista, che ad ogni portata ci sorprende, come accade con il nuovo ciclo di lavori: Folie bourgeoise. Composto dal video Ballo con Ivonne e dalla serie fotografica intitolata Lingerie, propone uno stuzzicante cortocircuito tra cibo e sesso. Lo fa mettendo in scena un esplicito riferimento alla sensualità del corpo femminile. Un corpo da guardare, sfiorare, accarezzare e stringere, per il nutrimento dell’anima, del cuore e della pancia. Sì, anche della pancia, perché il corpo della donna è anche il corpo della nutrice, di colei che dispensa cibo. Un cibo attinto, questa volta, dalla pescheria e, prima ancora, dal mare. Il mare di Trieste, la città di Odinea Pamici, la città della sua Cucina, per l’appunto triestina.
Polpi, pesci e frutti di mare hanno abboccato, sono saltati nella rete. Non per finire in tavola, nei piatti, nelle bocche e nelle pance, ma nella preziosità pizzosa di slip, culotte, reggicalze, reggiseno e gu’pière. Tutti neri, bordati dall’effetto silicone che restituisce il senso di una viscida gomma; tutti su fondi di pizzo nero o bianco che dilata oltre i confini dell’indumento la sua stessa essenza. Polpi rosacei, spaghetti di riso, pesci argentei, gamberetti le cui zampette, lì, dentro gli slip, ammiccano ai peli pubici, mescolati a cozze rosa-arancio che sembrano piccole vagine animate dai peperoncini sparsi qua e là, danno corpo a immagini dal forte sapore pittorico. Pesci e frutti di mare sembrano fresche pennellate di colore, agitate dentro una lingerie gravida di esserini, che dal regno animale si catapultano nell’universo umano prefigurando l’immagine di tanti piccoli embrioni. Il risultato è sinistro. Da un lato attrae la gola e dall’altro si fa ripugnante per l’epidermide e per l’olfatto.
Lo stesso accade nel video, dove le gambe dell’artista ballano trattenendo viscidi polpi entro le calze di pizzo. E’ una “folie bourgeoise”, perché allude a un’alimentazione di lusso, per l’intenditore raffinato, ma anche per il “goloso”, di cibo e di sesso, di alta cucina e di alta lingerie. E’ la follia di vivere il proprio corpo con indosso un “corpo estraneo”, ma estraneo davvero, e di viverlo al ritmo di una musica che funge da mestolo. Per mescolare, al giusto ritmo, le gambe, i piedi, i polpi e le calze, con gli occhi incollati su quelle gambe dall’alto del corpo e del pensiero.
Sabrina Zannier

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