Nel 1921, a soli diciotto anni, Franco Asco (Atschko) si classifica secondo al concorso per la Medaglia Interalleata Internazionale, a pari merito con lo scultore romano Publio Morbiducci. Svolge quindi un’intensa attività espositiva, iniziata, nel 1922, con una prima mostra personale a Venezia. Dal ’23 al ’33 vive a Trieste e poi si trasferisce a Milano. La sua produzione plastica, esaurita, alla fine degli anni Venti, la fase d’ispirazione neoattica (evidente nei bassorilievi della Stazione Marittima di Trieste), si stabilizza in forme chiuse e compatte. Dopo aver presentato, nel 1941, l’opera Anadiomene alla ventiduesima Biennale di Venezia, Asco non espone in pubblico per alcuni anni. In quello che lo stesso artista ha definito uno “splendido isolamento”, realizza opere come Riposo (1945), Cristo (1948), Sogno di maternità (1950), testimonianze del proseguimento della sua ricerca artistica verso uno stile sempre più arcaico ed essenziale. Pur dedicandosi prevalentemente alla scultura, è attivo anche nell’ambito della decorazione, della progettazione di gioielli, e della pittura. L’Autoritratto del 1950 s’inserisce in un momento di grande rinnovamento creativo dell’artista; in quell’anno Asco presenta, prima a Trieste e poi alla Galleria dell’Illustrazione Italiana di Milano, 27 opere, realizzate tra giugno e dicembre del 1949, che documentano una crisi «compresa e limitata da due autoritratti» (Leonardo Borgese, 1950). Nel descrivere il primo, Asco dice «Risveglio è la rappresentazione del dolore da cui rimasi turbato quando, dopo sedici anni di assenza ritornai al mondo dell’arte. (…); parlando del secondo, invece, scrive: «mi sono immaginato in ascolto, ancora dubbioso e lontano dalle lotte, ma in attenta aspettativa» (F. Asco, “Psicanalisi plastica”, in Presentazione della mostra alla Galleria dell’Illustrazione Italiana, 1950). Rispetto a questi due autoritratti, ancora naturalistici, quello del Museo Revoltella presenta una maggior essenzialità formale, memore della plastica di Arturo Martini e Marino Marini, che accentua il carattere sofferto dell’espressione.