Proprio perché si riteneva insuperabile nella riproduzione della frutta, Malacrea sceglieva preferibilmente frutti per le sue composizioni, dove non manca quasi mai l’uva, ingrediente di straordinaria efficacia decorativa, non solo per la struttura dei grappoli, che ben si adattano alle esigenze della composizione, ma anche per la possibilità di catturare e moltiplicare la luce, creando infinite vibrazioni. O non sarà stato per una ragione meramente pratica? Lo ricorda Teo Gianniotti (1941) riportando Giuseppe Caprin: «Questi soggetti li amava di amore spirituale, durante la creazione, ma da ultimo, carnale, ché, dopo averli coscienziosamente ritratti, se li mangiava di gusto, certamente con più religione di qualunque altro povero mortale.» Lo confessava egli stesso con una battuta della sua cruda ironia: «Il vero deve servire al pittore, le copie agli amatori».
Opera esemplare per il perfetto equilibrio compositivo, ma anche per il rapporto fra gli oggetti e lo spazio, definito da una netta separazione fra il piano d’appoggio della frutta e lo sfondo, questa natura morta riassume i caratteri della pittura di Malacrea e mette in evidenza la sua predilezione per i toni caldi, come dimostra la presenza in primo piano di un succoso melone tagliato che ‘corregge’ la diagonale principale e sembra pronto per essere afferrato dall’osservatore. Ma qui viene esaltato anche il suo talento scenografico, capace di suggerire una cornucopia partendo da un rustico cesto rovesciato.