Per una lettura non superficiale di questo suggestivo autoritratto di Arturo Nathan sono imprescindibili alcuni richiami alla sua travagliata esperienza biografica che nel 1922 lo spinse a rivolgersi a Trieste allo studio di Edoardo Weiss, primo psicanalista di scuola freudiana attivo in Italia. Dopo avergli diagnosticato, anche con l’autorevole parere di Sigmund Freud, “una semplice fissazione materna, molto pronunciata”, Weiss lo indirizzò alla pittura, per riprodurre in questo modo i propri stati d’animo e cercare una via di guarigione per la sua personale angoscia esistenziale.
Sin dai primi lavori nella pittura di Nathan emerse, inoltre, l’ascendenza simbolista, arricchita di echi metafisici dopo l’incontro con Giorgio De Chirico e Alberto Savinio, avvenuto a Roma nel 1925.
Nella vicenda artistica di Nathan gli autoritratti rivestono un particolare significato, poiché documentano le varie fasi del suo lavoro di autoanalisi compiuto per mezzo dell’arte. Dopo l’Autoritratto ad olio del 1924 – nel quale, indossando un camice bianco sopra un classico abito con giacca e cravatta, sembrava voler dare un’immagine professionale di sé, nel 1925 disegnò L’uomo dagli occhi chiusi che, secondo una chiave di lettura psicanalitica, sarebbe un segnale della sua volontà di privilegiare la propria visione interiore, escludendo così il mondo esterno (Accerboni, 2003). In seguito egli si rappresentò più volte nelle vesti di asceta, naufrago o esiliato (Girmounsky, 1935). L’asceta è uno dei lavori più interessanti di Nathan, preceduto da un disegno a matita del 1926, riguardo al quale Vittorio Sgarbi rilevò quanto segue: «È chiuso in una cappa rigida come di marmo, un sudario inamidato in un’invenzione degna di Adolfo Wildt, con gli occhi che ci guardano allucinati, sbarrati» (Sgarbi, 1992). Nell’immagine che l’autore dà di sé convivono i rimandi occidentali e orientali, quasi a voler rappresentare simbolicamente le sue due origini. Al mondo orientale sembrano, infatti, riferirsi la solennità della posa, la fissità ieratica del volto e la foggia indiana della tunica, di cui l’autore ha lasciato intravedere il particolare del colletto. Mentre il nitore del segno, l’uso sapiente della luce e l’impostazione quattrocentesca del ritratto paiono riallacciarsi alla tradizione occidentale, rivisitata in chiave moderna attraverso la lezione dei Nazareni, dei Preraffaelliti inglesi (conosciuti durante il soggiorno londinese) e del tanto ammirato De Chirico.