Nell’intero arco della sua produzione Anzil (Toffolo), nato a Monaco nel 1911 ma vissuto tutta la vita a Tarcento (Udine), dov’è morto nel 2000 – rappresenta più volte se stesso (Autoritratti del 1936, 1946, 1978, 1980, 1986). Come il pittore riferisce in un dialogo con Tito Maniacco «La storia degli autoritratti comincia molto lontano e per il semplice motivo che, non avendo modelli, mi dipingevo allo specchio. Poi ho scoperto che avevo un appuntamento con la mia faccia di cui osservavo più la struttura tipologica che la somiglianza. Quel che fa cambiare lo stile è il modo diverso di vedersi a seconda degli anni e delle relazioni emozionali». Dal confronto tra le varie immagini emerge un elemento comune: l’artista si scruta, talvolta drammaticamente, talaltra ironicamente, ma «sempre mettendo davanti a chi guarda un’immagine in cui ciascuno che sia persuaso della complessità della psicologia umana non può non ritrovarsi». (Giancarlo Pauletto, “Un testimone dentro la storia”, in Anzil. Mostra antologica, 1990, p. 23). Ma egli compie anche il procedimento inverso, ossia unisce la denuncia delle ingiustizie politiche e sociali all’indagine introspettiva. Ritroviamo spesso la sua fisionomia nei contadini e operai che popolano le sue tele e, come rileva Pier Paolo Pasolini, «c’è dell’inquieto, dell’ibrido, dell’equivoco in questi personaggi che hanno i suoi tratti» (P. P. Pasolini, 1947). Facendo coincidere la propria realtà individuale con quella del suo popolo, Anzil si trasforma in «un grande interprete dell’inconscio collettivo friulano; un grande pittore stregone, evocatore potente di un mondo di archetipi ancestrali che ci portiamo nell’inconscio da età immemorabili» (C. Sgorlon, “Un grande interprete dell’inconscio collettivo friulano”, in Anzil. Opere 1936 – 1988, 1995, p. 11).