Nel 1922 l’Autoritratto risultava di proprietà del Circolo Artistico di Trieste e nove anni dopo fu donato al Museo Revoltella. Forse fu esposto alla mostra postuma del 1904 a Trieste, dove figuravano, tuttavia, altri Autoritratti e perciò non è un dato per ora verificabile. Molto lodato dalla critica, fu considerato da Giorgio Vigni nel 1946 una delle opere fondamentali dell’artista «nelle quali quell’eclettismo sconcertante […] tende a sparire e si riassorbe in una linea stilistica formata dalle migliori qualità del Veruda». Sotto il severo cilindro nero, copricapo ben diverso dalle piccole e spiritose bombette che Veruda indossava negli anni giovanili, appare un volto profondamente segnato e sofferente. Si ha notizia, infatti, di una profonda crisi attraversata da Veruda a Parigi nel 1903 in seguito al rimorso per aver provocato la morte della madre. Inoltre, i sintomi della malattia che lo portò alla morte, l’anno successivo (1904), dovevano cominciare già a farsi sentire. Nonostante tutto il quadro afferma con decisione la sua perizia nell’usare in modo espressivo il colore: l’inaspettata macchia di rosso cadmio, in basso a sinistra, accende i toni sobri e melanconici e riesce a strappare al ritratto una squillante nota vitale.